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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

«V'è nella selva…»

Le Villi al Teatro Regio di Torino

Aprile mese delle rarità, per il Teatro Regio di Torino: in contemporanea con The Tender Land di Aaron Copland, presentata in prima italiana, vanno in scena Le Villi. E mentre un po' dappertutto imperversano Tosche, Bohème e Turandotte, il Regio sceglie di essere, con discrezione e raffinatezza tutta torinese, l'unico in Italia, nell'anno pucciniano, ad allestirle (a parte Torre del Lago, che ne inscenerà a luglio la prima versione).

Titolo raro, Le Villi, spesso relegato al rango di curiosità da musicologi. Eppure in grado di affascinare, e non solo per la voglia di scovare i prodromi del futuro operista. Gli ingredienti per far presa ci sono tutti: il gusto per il sovrannaturale; un'orchestrazione varia e brillante; melodie orecchiabili, ancora piuttosto squadrate per il Puccini maggiore ma già notevoli per quello minore – la loro aderenza alla drammaturgia non è ancora così stringente come in seguito (vedi la preghiera a fine atto primo, che di preghiera ha poco o nulla), ma lasciamolo fare –; armonie à la Wagner ma non troppo, anzi, nel Preludio un esplicito riferimento al Parsifal; magari ecco forse una trama un po' esile e un libretto non proprio eccelso, quello di Ferdinando Fontana; ma la fonte letteraria, Les Willis (1852) di Alphonse Karr, a sua volta derivato da Giselle di Théophile Gautier, ben si adattava, per gusto e tendenze, alla Scapigliatura cui Fontana aderiva, tutta eccessi e demoniaco.

L'occasione di collaborare col giovane lucchese fresco di Conservatorio si presentò col primo Concorso Sonzogno per opere in un atto. Le Villi non vinse, ma venne notata da Ricordi, che prese Puccini sotto la sua ala protettrice: e così l'opera, composta nella seconda metà del 1883, venne rappresentata al Teatro Dal Verme di Milano il 31 maggio 1884. Per darle maggiore circolazione, Ricordi suggerì di ampliarla, con l'aggiunta di tre numeri, che passarono da sette a dieci: la romanza di Anna Se come voi piccina, la “scena drammatica” di Roberto e un intermezzo sinfonico. Nella nuova versione in due atti (di versioni alla fine se ne contarono quattro), e col titolo cambiato dal più esterofilo Le Willis al più italiano Le Villi, ri-debuttò proprio al Regio di Torino il 26 dicembre dello stesso anno. Ritocchi e aggiustamenti si succedettero fino al 1892 (anno in cui venne portata in trionfo ad Amburgo dalla bacchetta di Gustav Mahler); tra questi è da segnalare il più importante, l'aggiunta della romanza di Roberto Torna ai felici dì: così rimpolpata, andò in scena alla Scala il 24 gennaio 1885.

Ciò che colpisce di più è la preponderanza della parte sinfonica su quella cantata, dettaglio notato anche da Verdi, forse presente alla prima torinese, che, ritiratosi dalle scene con Aida nel 1871, non aveva smesso di seguire con curiosità gli sviluppi del panorama lirico italiano e internazionale, e che in una lettera al suo amico Opprandino Arrivabene scrive: «[…] non credo che in un'opera sia bello fare uno squarcio sinfonico per il solo piacere di far ballare l'orchestra».

Curiosamente, da quel 26 dicembre 1884, l'opera non venne mai più ridata a Torino. A centoquarant'anni di distanza, una ripresa era più che doverosa. Se ne può quindi apprezzare il carattere ibrido, e si capisce perché sia stata definita dagli autori «opera-ballo»: l'estetica del periodo imponeva un radicale ripensamento dell'opera, e alla luce della concezione wagneriana di Gesamtkunstwerk, musica, canto, ballo e recitazione, insomma un po' tutte le arti performative, dovevano concorrere allo spettacolo “totale”, come per gli antichi Greci – qualcosa che il grand opéra francese in qualche modo già faceva, ma in accezione diversa. E così ecco il giovane Puccini mettere mano a un lavoro dove il ballo, e di conseguenza gli interludi sinfonici, assumono un'importanza rilevante, anche per la trama: gli spiriti delle donne tradite, le Villi, appunto, costringono il fedifrago Roberto, che a Magonza ha tradito Anna irretito da una «sirena», a ballare fino alla morte, nel cupo dello Schwarzwald, quando torna, spiantato e troppo tardi pentito.

E proprio un cupo fogliame proiettato sul palcoscenico accoglie lo spettatore in sala al Regio, prima che attacchi il Preludio. All'alzarsi della tela, anziché nella «casa modesta, quella di Guglielmo» chiesta da Fontana, ci troviamo, per volontà del regista Pier Francesco Maestrini, nel giardino di una villa ottocentesca, pressappoco all'epoca di composizione dell'opera stessa. Il colpo d'occhio è notevole, cromaticamente affascinante, con ricco fogliame, un gazebo rotondo arretrato al centro e tavolini da esterno bianchi in primo piano, dove si svolgono la romanza di Anna e il duetto Anna-Roberto. Le scene, di Guillermo Nova, si armonizzano con gli splendidi costumi di Luca Dall'Alpi, assistito da Laura Viglione, in linea con l'epoca. E, come Puccini anticipa la danza delle Villi nella romanza di Anna, così il gazebo-giostra prende a ruotare sulle parole «Gira! Balza!» del valzer dei montanari, le stesse che pronunceranno le Villi nella ridda finale: arguta e sottile anticipazione registica. Ma per adesso, l'eden idillico evocato dal padiglione fiorito asconde e protegge un amore ancora in boccio.

Promosso a pieni voti anche il secondo atto. Le femme fatale adescano Roberto in un postribolo, dominato sullo sfondo da una riproduzione ingigantita della procace e scompigliata Femme au perroquet di Courbet (1866), leggermente obliqua a significare la corruzione morale dell'ambiente. Peraltro, sia o no coincidenza, l'allontanamento da casa del fidanzato ideale, la sua progressiva degradazione e il ritorno verso l'amata fedele sarà il nucleo del Rake's Progress, del 1951: con la differenza che, mentre la Anne Trulove di Stravinskij riaccoglie e perdona Tom Rakewell, che verrà punito con la demenza, la Anna di Puccini si vota al sacrificio aspettando invano di rivedere l'amato, fino a morirne: e in questo c'è già l'essenza di Butterfly (e in Roberto quella di un Pinkerton meno elaborato). Ma dalla tomba Anna si ridesta in forma di spirito, di Vila, appunto, e in questa forma esigerà vendetta. È quanto si vede nelle proiezioni dello spettacolo, che vengono usate in abbondanza ma non in esubero, anzi, sempre con quel tocco noir che piacevolmente inquieta col fascino irrazionale dell'horror: immagini perennemente immerse in plumbee brume al crepuscolo, che sanno davvero di freddo, di nord – e il repentino abbassamento di temperatura fuori dal Teatro pare metterci del suo… –, fra tombe abbandonate, crocifissi e lugubri cimiteri; e che dire della lunga “scena drammatica” di Roberto, tutta sotto un nevischio incessante, sullo sfondo di alberi scheletriti e morti? Puccini forse avrebbe gradito, dato l'intreccio delle arti sopra citato e il coinvolgimento della “decima musa”. Il lavoro registico, valentemente coadiuvato dalle luci di Bruno Ciulli, coglie in pieno lo spirito di leggenda dell'opera e resta sostanzialmente fedele al libretto, col pregio di rispettare alcune indicazioni esplicitamente volute dal compositore, come velare il palcoscenico durante la processione funebre di Anna; e chapeau a trucco e parrucco nel presentare infine quest'ultima in forma di spettro silvestre, che riceve il cuore ancora caldo strappato dalle Villi ad un Roberto che, anziché danzare fino alla morte (altro riferimento stravinskijano: che cosa fa l'eletta nella seconda parte del Sacre?), viene legato e sprofonda come (un) Don Giovanni. Se si deve avanzare una critica, è proprio verso la coreografia di Michele Cosentino (anche assistente alla regia), che rende il lato tersicoreo dello spettacolo piuttosto statico, sia nella scena del bordello, dove Roberto viene palleggiato dalle vamp senza accenni di peccaminoso ardire, né soprattutto nella danza non così sfrenata delle Villi, che si avventano su Roberto, quasi Baccanti su Penteo o cani su Atteone.

Che sia stato fatto per favorire Azer Zada, non proprio a suo agio in movimenti di agilità, non è dato sapere (absit iniuria verbis); di sicuro, il tenore azero, almeno alla recita di domenica 21 aprile 2024, di cui si riferisce, non è parso vocalmente in gran forma, corretto nel primo atto in Ah!… Ti ho colta! e in Tu dell'infanzia mia , perché non ha da sforzare e ha modo di premere sul pedale del lirismo, ma non all'altezza nella lunga scena del secondo, in cui sovente la voce, timbricamente bella ma di poco volume e senza proiezione, viene coperta dall'orchestra e non trasmette il fremito della tragedia imminente.

Miglior prestazione ha fatto registrare il Guglielmo Wulf di Simone Piazzola: la preghiera Angiol di Dio è dignitosa, ma è in No! Possibil non è… Anima santa della figlia mia, un dittico scena-aria vecchio stampo – anche per come Puccini lo musica, improntandolo a una cantabilità verdiana che già declina al disfogato tardoromantico –, che ha modo di esibire il suo registro acuto solido e tornito, lodevole benché intonato da uno strumento non particolarmente bronzeo.

Buona anche la prova di Roberta Mantegna, che, seppur di stampo non propriamente adatto, riesce a differenziare la Anna viva – figura di eroina melanconica non solo in grazia di buone doti attoriali, ma anche di una voce valida, smaltata, omogenea e ben proiettata, anche se con qualche asprezza in acuto e non molto fraseggiante in Se come voi piccina – dalla Anna redi-viva, che drammatizza la voce e ne fa arcigno e torvo strumento punitivo.

Del cast si attesta sicuramente come la più valida, e la si riascolta volentieri, dopo l'ottima prova quale Duchessa Elena nei Vespri siciliani del luglio scorso, diretta da Riccardo Frizza. Ed anche Frizza, come Mantegna, torna al Regio per queste Villi, e non delude, come non delude l'ottima Orchestra del Regio, sugli scudi per qualità e brillantezza di suono, e l'omonimo Coro, poco impiegato ma ben istruito da Ulisse Trabacchin. La sua è una direzione ferma, equilibrata, che rispetta ed esalta le raffinatezze coloristiche dell'orchestra pucciniana, ma, forse accordandosi con la summenzionata staticità delle parti danzate, si astiene dal farsi trascinare dal ritmo da autentica danse macabre della tregenda. Niente eccessi, quindi, niente istrionismi: al suo posto, uno squadro conciso e nitido del suono, soprattutto nel recitativo di Guglielmo, con qualche cedevolezza alla fascinosa malia del melodismo del primo atto, forse grazie alla lunga frequentazione del repertorio belcantistico italiano. Qualche bilanciamento in più rispetto ai limiti tecnici del cast, però, non avrebbe guastato.

Il pubblico, che non fa registrare il sold-out ma nemmeno diserta la sala, tributa stranamente applausi poco convinti alla fine della recita. Ed è un peccato, perché, se non brilla dal punto di vista vocale, questa produzione va sicuramente ascritta tra le più riuscite della stagione dal punto di vista registico e strumentale.

Christian Speranza

25/4/2024

Le foto del servizio sono di Daniele Ratti.