Un austero, raffinatissimo tripudio
di geometrie cosmiche
Un'invincibile armata in nero ed écru, cappellini da matricola e fucili per gli uomini, parrucche bleu-nero ed orecchioni alla Minnie di Mickey Mouse per le donne.
Sono loro, forse più degli altri, a farsi carico del nulla, di quel RIEN che, a caratteri cubitali ed in un corsivo che rammenta certe insegne di negozi d'antan – torreggia in scena su Faust ancora in abito nero e candida “lattuga” al collo, nel suo studio. E poi di nuovo, lo stesso inesorabile RIEN – che prende chiaramente le mosse dal suo lirico, dolentissimo “Rien! En vain j'interroge, en mon ardente veille, la nature et le Créateur… ” – di nuovo in chiusura del Faust di Charles Gounod che conosce, al Festival di Salisburgo, un supremo esempio d'ingegno ed ingegneria teatrale grazie all'allestimento interamente firmato (regia, scene, costumi) da Reinhard von Der Thannen.
Quella di Faust – e del temibile, onnipotente “gregario” del Diavolo, Mefistofele – è storia che ci è familiare come un pugno nello stomaco, si legge nel foglio di sala. Eppure, dell'umano “assatanato” di conoscenza a cui Barbier e Carré, librettisti di Gounod, mettono in bocca di non volere né richesse, né gloire, né puissance ma “un trésor qui les contient tous…je veux la jeunesse”, di Faust, dicevo, al compositore interessava principalmente l'eroe della prima parte del poema , la cosiddetta “Gretchen” ovvero l'episodio legato alla figura di Marguérite. Non a caso la versione in lingua tedesca dell'opera s'intitolava, appunto, Margarethe e non a caso il regista, a un certo punto dello spettacolo, farà “calare” in scena una margherita gigantesca d'infantile, atemporale piglio immaginifico.
È un tripudio austero e raffinatissimo di geometrie cosmiche, il Faust secondo Der Thannen, trionfo di bianco-grigio della macchina scenica, cerchi concentrici “spaccati” da aperture indulgenti e corredati, nella prima parte dell'opera, da un tappeto di seggiole e seggioloni, una sorta di bianco, bauschiano Cafè Müller. E donna in bianco è quella sul fondo – Marguérite – bianco il letto sul quale ella si agita – bellissimo l'effetto “serpenti” che forse sono tarli della mente, vero e proprio tappeto di umani tentacoli che il Coro crea mirabilmente ai piedi del letto.
Bianche anche le “barelle-passerelle” che conterranno gli spasimi dei due amanti e gli equilibrismi dello strepitoso Coro-clown (diretto da Walter Zeh) popolato da curiosi pierrot rivisitati: una strepitosa, sorprendente chorus line di lusso dotata di straordinarie capacità coreografiche (pensate e guidate da Giorgio Madia) e attorali da cui non pochi cori dei nostri teatri lirici dovrebbero trarre esempio.
Bianca ma punteggiata da colorati fiorellini d'album è la stanza di fanciulla in cui Faust – Pjotr Beczala, magnificamente in parte e in arte – travolgerà con il suo “Salut, demeure chaste et pure” all'indirizzo di Marguérite - Maria Agresta, non senza ragione Premio Abbiati 2014, possente “cantattrice” di qualità vocali dirompenti e da cui attendiamo con ansia più che l'imminente Micaela al “Met”, la futura “Norma” madrilena.
Ma il giocattolo scenico che li contiene tutti, ottimamente rispondenti al loro ruolo – Ildar Abdrakazov (Méphistophélès), Alexey Markov (Valentin), Tara Erraught (Siebel), Paolo Rumetz (Wagner), Marie-Ange Todorovitch (Martha) – non è certo concepito pour épater le bourgeois, tutt'altro. L'ingegneria poetica di Der Thannen mantiene una delicatezza gestuale ed oggettuale al di sopra d'ogni sperimentalismo dell'ultima ora, non ha nulla di pachidermico persino quando uno scheletro gigante, prodigiosamente calato dall'alto, sembra voler tenere il passo con sei irridenti, aeree “Tänzerinen”, sette baldi “Tänzer” e due “Mimen”.
Il resto – e che resto – è affrescato dai Wiener Philarmoniker diretti dall'argentino Alejo Perez, già “creatura” artistica di Gerard Mortier, scomparso due anni fa, geniale “officiante” della lirica pop, talent scout d'artisti e d'arte nuova (L'amour de loin di Saariaho è roba sua) nonché direttore storico del Festspiele che guidò per dieci anni fino al 2001.
Il pubblico della Grosses Festspielhaus? Ah beh, sì beh.
Ci duole un tantino dover riconoscere, qui ed ora, che al côté generosamente internazionale – per repertorio, per artisti, per progetti, per scommesse, Cecilia Bartoli in testa – del Festival di Salisburgo non corrisponda l'apertura mentale e culturale (pronti a gridare al miracolo dinanzi a regìe datatissime e maleodoranti di “veteroavanguardie” che non potrebbero essere più retroguardie), legatissimi a stereotipi decisamente “folk” (guai se i personaggi italiani delle opere, Da Ponte in testa, non sono abbastanza “piacioni”, caciaroni, esagerati) e, perché no, anche incompetenti se non insipienti quando si tratta di repertori che esulano dal territorio austriaco o germanofono in generale (li abbiamo visti rumorosamente osannanti dinanzi, giusto per fare un esempio, ad una Norma in forma di concerto che sapeva di belcanto quanto una performance di Eminem). Tutto ciò per dire che forse aveva ragione Reinhard Von Der Thannen, se, alla “prima” di Faust, temporeggiava nel presentarsi in scena per i ringraziamenti giacché, quando l'ha fatto sotto giusto invito della primadonna che è andato a “prenderlo” più volte, la platea l'ha inopinatamente coperto di Booo! e battipiedi di dissenso. Il che ci è sembrato quanto meno inappropriato all'aristocratica, raffinata discrezione con cui il regista aveva “smosso” le acque (e la tradizione), un dissenso ingiusto e ingiustificato se pensiamo, invece, allo sproporzionato, forsennato favore riservato alle facili, farsesche e spesso grossier regie di Bechtolf (quest'anno unico deus ex machina della trilogia italiana di Mozart-Da Ponte). Ma – prodigio saggiamente invocato e benedetto da Mejerchol'd – ai fischi un'altra parte della platea rispondeva a suon di standing ovation. E, diceva Vsevolod Emil'ievic', platea divisa, successo assicurato.
Carmelita Celi
13/8/2016
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