I carusi di Pippo Fava
“L'importante è sapere dove finisce la verità e dove comincia la mia opinione”.
Sobriamente affabulatorio ma diretto, inchiodante e urgente ancora oggi - Giuseppe Fava - a trent'anni da quel 5 gennaio 1984 in cui Cosa Nostra con cinque spari nella notte (in piena regola d'assassinio mafioso che “è come la guerra nucleare, non si dichiara ma si esegue”) lo mise a tacere per sempre (ma forse no) in via Dello Stadio che oggi porta il suo nome, a un sospiro dalla Sala Verga del Teatro Stabile di Catania. Lì, quella sera, il giornalista (Il Giornale del Sud e più tardi, I Siciliani, furono sue creature), scrittore (da Gente di rispetto il film di Luigi Zampa mentre Passione di Michele diventò il film Palermo or Wolfsburg premiato al Festival di Berlino) e drammaturgo (Cronaca di un uomo e La violenza, giusto per dare due titoli) nato a Palazzolo Acreide nel 1925 ma presto adottato da Catania dove si laurea in giurisprudenza – quella sera alle 21.30, dunque, Fava s'era ritagliato uno spazio di tempo per andare a vedere la nipotina che, a tre anni o poco più, consumava il suo debutto teatrale nei panni di Ninì in “Pensaci, Giacomino!” di Pirandello (non andava lì per assistere al suo dramma “L'ultima violenza”, come molti colleghi della carta stampata si sono ostinati a scrivere per anni, quasi a voler ulteriormente “decorare” un tragico evento ch'era in grado di tuonare da solo e di retoriche, “contestuali” coincidenze non aveva punto bisogno).
Intercettare dunque il fil rouge che dovrebbe separare la “verità” dal resto, per esempio il proprio punto di vista.
E' il primo (e forse l'unico) dovere del cronista che rende immensa e senza tempo la lezione di Pippo Fava ma che, a suo modo, è stato anche viatico per i “suoi” carusi che, nei primissimi Anni Ottanta, furono i redattori de “I Siciliani”, il mensile “contro” fondato da Fava – in testa Antonio Roccuzzo, Claudio Fava, Riccardo Orioles – nel realizzare il film documentario I ragazzi di Pippo Fava in onda su Raitre, domenica 5 gennaio alle 21.30, proprio per il trentennale dall'assassinio e che noi abbiamo visto in un'affollatissima anteprima al Teatro Massimo Bellini di Catania.
Ideato da Gualtiero Peirce e dallo stesso Roccuzzo – quest'ultimo firma il libro Mentre l'orchestrina suonava “Gelosia” da cui soggetto e sceneggiatura prendono avvio - il docu-film ha la regìa di Franza De Rosa, la partecipazione straordinaria di Leo Gullotta (con Alessandra Costanzo e Antonello Costa) ed un cast di baldi, intensi “red-attori” rigorosamente siciliani (sebbene con sonoro, prevalente accento palermitano): Francesco La Mantia , Karoline Comarella e Paride Cicirello, Stella Egitto, Luciano Falletta, Barbara Giordano, Alessandro Meringolo, Giuseppe Mortelliti.
Verità “oggettiva” e “soggettiva”, allora.
Difficile non arrendersi alla prima, se è lastricata da quella sorta di “prima che vi uccidano” fatto di dichiarazioni dolenti e impietose di Pippo Fava che nel docu-film è presente anche in carne ed ossa grazie ad inserti preziosissimi, non ultima la leggendaria (e necessaria) intervista di Enzo Biagi, il 28 dicembre 1983, appena una manciata di giorni prima d'essere ammazzato: “Noi siciliani siamo tutti mafiosi in partenza, dobbiamo serenamente giudicare noi stessi, bisogna saperlo per capire la bestia che è in noi”. Ma anche: “I mafiosi, a volte, sono ministri. I mafiosi sono banchieri. I mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione”.
La “parentela” etica con Io so di Pasolini è agghiacciante.
E poi: “Per combattere la mafia bisogna sfondare le banche, partecipare alla distribuzione delle ricchezze (…) La mafia amministra tanto denaro da poter armare un esercito tre volte più grande di quello italiano ma è più facile agire di lupara”. E ancora: “Paura? No. Più che altro preoccupazione di non capire la linea di demarcazione tra amici e nemici... Mandate in Parlamento gente sulla cui verità siete certi”.
Altrettanto difficile, però è contestare la seconda - la soggettività – che, in questa sede, era quantomeno inevitabile.
Non ci si può certo aspettare che se uno dei giovani, promettenti “allievi-figli” di Fava (Antonio Roccuzzo, che nella fiction ha il volto del giovane La Mantia ma interviene anche di persona, così com'è oggi, a mo' di Virgilio dell'intera vicenda, non senza alcuni contributi di Claudio Fava) decide di raccontare la fulminante avventura de “I Siciliani”, possa farlo senza indulgere in una garbata, ferma, commossa autocelebrazione, vibrante di memoria condivisa e di personalissimi ricordi.
“La storia siamo noi”, insomma.
E non è stato solo il metodo di lavoro a cui I ragazzi di Pippo Fava fa involontario o volontario riferimento ma sembra essere il tacito, orgoglioso (se non compiaciuto) urlo di guerra di quella tonante, appassionata squadra di ventenni che facevano “vera informazione una volta al mese”, così giovani eppure così lungimiranti da “percepire d'avere un'occasione”.
Fermo restando che tutto è perfettibile - e tenuto in debito conto il necessario e chissà quanto possibile rispetto dell'invisibile crinale tra obiettività “scientifica” e viscerale partecipazione - il lucido, appassionato, insanguinato “com'eravamo” dei Carusi di Pippo Fava brucia eccome. Anche oggi. Anche alla più “moderata” delle coscienze civili.
E brucia non tanto e non solo attraverso i volti bellissimi e tesi dei giovani interpreti ma in quell' everyman sicilianissimo e apolide, lo zio di Roccuzzo - interpretato con il consueto, sapiente, talentuoso, affinato “passo di volpe” da Leo Gullotta – che al nipote che prende fuoco dinanzi al “comandamento” di Fava (“A che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare?”) risponde, saputo: “Io a vent'anni me ne stavo chiuso in una stanza a Taommina cu' na bedda fimmina”.
E che importa se aderisce alla lettera al “vero” zio di Antonio.
Lui resta l'autentico everyman del continente Sicilia e di quell'altro “continente” di conio martogliano, l'Italia, che, seppure in percentuale irrisoria e “transitoria”, spesso alberga in molti di noi: quello del “chi te lo fa fare”, quello che non fa male (né bene!) a nessuno, quello che preferisce credere che l'omicidio di Pippo Fava fu regolamento di conti, sì, ma per cosi di fimmini.
L'eterno (pirandelliano e cosmico) uno nessuno e centomila che avrebbe pagato per fuggire dai carusi di Fava il più lontano possibile ma che avrebbe pagato fors'anche di più per essere, finalmente, uno di loro.
Carmelita Celi
4/1/2014
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