RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Una Fedora rivissuta

L'opera di Giordano al Teatro Carlo Felice di Genova

È l'anziano Loris Ipanov, seduto in un angolo del proscenio, a ricordare e rivivere, sfogliando un album fotografico, la vicenda che aveva segnato la sua giovinezza, fino a morire di crepacuore nel momento in cui rievoca la morte di Fedora. Da ciò discende la staticità della regia di Rosetta Cucchi nel I atto (laddove tutto, almeno nella parte finale, dovrebbe essere invece febbrile e frenetico, costituendo un vero poliziesco in musica), che Loris può solo immaginare, non avendolo vissuto in prima persona; regia che negli atti seguenti si allinea invece al dettato della drammaturgia, dando vita a uno spettacolo assai piacevole, allietato da scene e costumi d'epoca (curati, rispettivamente, da Tiziano Santi e Claudia Pernigotti), evocativi senza essere didascalici né sovrabbondanti. Unico neo, non si capisce la ragione della posposizione d'alcuni decenni, agli anni della Prima Guerra Mondiale, resa presente dai bollettini miliari diffusi all'inizio di II e III atto e da alcune scene sullo sfondo: al di là del fatto che l'opera fu scritta quando alla guerra non pensava ancora nessuno, ciò che è verosimile, anzi storico, a fine Ottocento, non ha più senso durante la Grande Guerra: come potevano i nobili russi muoversi agevolmente avanti e indietro tra la Russia e Parigi, attraversando Paesi nemici? E, soprattutto, come si può parlare dello zar dopo aver ascoltato il bollettino della vittoria italiana (novembre 1918) e aver assistito al rientro dei reduci? Senza contare che in Russia i nichilisti erano stati sostituiti da ben più pericolosi rivoluzionari...

Non si può pretendere tutto. Certo è che Fedora , lasciando l'ambiente storico sullo sfondo, come cornice, e concentrando la propria indagine sulle personalità e sui sentimenti, riesce ad avere una coerenza assai superiore ad Andrea Chénier, e meriterebbe, assai più di questo titolo, un posto in repertorio. Da alcuni decenni, invece, l'opera è relegata ai desideri artistici di qualche prima donna, e viene percepita dal pubblico come titolo raro; e, in quanto tale, anche se la logica vorrebbe il contrario, non desiderato ma temuto: le ali laterali della platea e la galleria vuote – e chi era presente alla performance concertante dell' Amico Fritz di Mascagni la sera precedente ha testimoniato una situazione ancora più triste – non sono una buona risposta dei genovesi a un teatro che, dopo anni di appiattimento sul repertorio più consueto, è finalmente tornato a proporre una programmazione originale e sfiziosa.

La recita del 29 marzo è stata segnata da avverse condizioni di salute. Daniela Dessì, indisposta, è stata sostituita nel ruolo titolare da Irene Cerboncini. Il soprano ha una voce vibrante che, al primo ingresso in scena, era fin troppo evidente, e tendeva a penalizzare le sfumature da un lato e la forza dell'accento dall'altro. Tuttavia, si è presto apprezzata la sua interpretazione decisamente intimista, anziché volontaristica, d'un intimismo che stempera nel dolore gli scatti d'ira, sicché il momento migliore del I atto è stato l'arioso finale sul corpo del fidanzato Vladimiro. Negli atti seguenti, comunque, ogni perplessità su di lei è sparita, poiché il vibrato, più moderato, è stato posto a servizio dell'interpretazione, divenendo un vero strumento espressivo che ha valorizzato l'intensità della passione e della preghiera, espresse con un fraseggio curato e appropriato – e si pensa in particolare al III atto, tanto ai suoi momenti di disperazione quanto alla delicatezza del commiato.

La Cerboncini si è messa in luce anche per contrasto, poiché Fabio Armiliato, nonostante fosse in scena, non era certamente in forma. Un provvidenziale annuncio nel secondo intervallo, che parla di improvviso riacutizzarsi di una sindrome influenzale, esime da un giudizio professionale che non avrebbe potuto essere che negativo: nell'ultimo atto, anzi – forse grazie a qualche cura somministrata, certamente grazie alla scelta di non forzare e a una drammaturgia più adatta alla voce rotta – la sua prestazione è stata decisamente più convincente che nel secondo. L'atto finale ha riscattato anche il baritono Sergio Bologna, il quale, nel ruolo di De Siriex, è stato capace di evidenziare, con una varietà timbrica marcata ed espressiva, la distanza spirituale tra i momenti gai del dialogo con Olga e la gravità degli annunci che deve dare a Fedora; mentre nell'atto precedente la sua “canzone russa” faceva percepire un fraseggio appena abbozzato.

Figura di carattere, sia pur perfettibile, è la Olga tratteggiata dal soprano Paola Santucci. Tra i numerosi personaggi collaterali, è stato sbalzato con particolare energia il cocchiere Cirillo, protagonista d'un arioso di intenso lirismo, affidato alla voce matura ma pur sempre vigorosa del basso Luigi Roni; ma anche gli altri, dallo spigliato e sapido Desiré del tenore Manuel Pierattelli all'asciutto agente Gretch del baritono Roberto Maietta, hanno assolto con efficacia al ruolo, piccolo o minimo, loro riservato dalla partitura. Partitura che è stata governata con sicurezza dal giovane direttore Valerio Galli, il quale – facendosi forza d'un'orchestra, quella del Carlo Felice, che è parsa in ottima forma – ha saputo valorizzare la scrittura orchestrale di Giordano senza penalizzare i solisti sul palcoscenico. Molto curato è risultato l'interludio del II atto, che segue di poco il momento in cui l'orchestra tace per lasciare spazio, in una delle pagine più originali dell'opera, al pianista Boleslao Lazinski (impersonato dal Maestro Collaboratore Sirio Restani), che tesse con un Notturno il sottofondo al dialogo tra Loris e Fedora nel quale egli confessa l'omicidio di Vladimiro.

Marco Leo

4/4/2015

Le foto del servizio sono di Marcello Orselli.