RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


I

Lirica alle falde del vulcano

Or tutto è chiaro, avrebbe sentenziato Scarpia. Nato a Villabate, nel palermitano, il bass-baritono Simone Alaimo ha compiuto i suoi studi a Linguaglossa, ridente località pedemontana alle falde dell'Etna. Ed è forse lì che, senza mai rinnegare le origini palermitane, s'è accesa la favilla di una creatività vulcanica, applaudita sui più blasonati palcoscenici del mondo, nel corso di una stagione aurea, quella della Rossini Renaissance, di cui è stato luminoso punto di riferimento. Oggi, che le sue apparizioni sulla scena si vanno diradando, l'artista ha opportunamente differenziato il suo raggio di attività: nel capoluogo isolano ha infatti aperto le porte di un'Accademia, dedicata al perfezionamento del canto lirico e dell'arte scenica, dove trasmettere e condividere i segreti della sua arte; ma accanto all'insegnamento non trascura il più vasto pubblico, al quale ha già consegnato un primo, accattivante volume di memorie teatrali, Anche un basso può volare… alto, affidato alle cure di Salvatore Sutera.

Ma Simone Alaimo ama riandare a Linguaglossa, che da qualche anno è diventato quartier generale dove – tra la frescura di una natura che invita alla quiete, alla riflessione e allo studio – si concretizzano gli sforzi di un periodo formativo intenso ma costruttivo: articolato in due fasi, dapprima un concorso di canto, finalizzato al reperimento degli interpreti di due produzioni liriche; quindi, nel breve volgere di pochi giorni, la preparazione e l'allestimento dei due spettacoli, presentati dopo un accurato lavoro di full immersion con un'équipe particolarmente affiatata, che oltre ad Alaimo stesso annoverava, quest'anno, la partecipazione straordinaria del soprano Daniela Schillaci. Inutile dire che i due titoli selezionati, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini e L'elisir d'amore di Gaetano Donizetti, stanno in cima a quelli prediletti dal patron della kermesse: impegnativo banco di prova per giovani artisti, che hanno saputo mettere a frutto – addirittura fino a pochi istanti prima del debutto – preziosi insegnamenti che riguardano non solo la tecnica vocale, ma anche una compiuta padronanza della scena, difficilissima in opere come queste, complessi congegni drammaturgici su cui gravano le attese dell'uditorio.

I tempi sono stati strettissimi e l'emozione, palpabile, altrettanto palese. Ma – una volta calato il sipario su questo breve “Festival del Belcanto” – sembra opportuno un breve bilancio dell'iniziativa, meritoria per più di un aspetto. Per cominciare per la cura riservata ai giovani artisti: a eccezione del ruolo di don Bartolo, che non è stato assegnato e che perciò è stato affidato a un professionista in carriera, ben undici personaggi sono stati attribuiti ad altrettanti talenti ancora inevitabilmente in progress (due per i ruoli di Berta, di Adina e di Giannetta), ma già capaci di cimentarsi con sicurezza e dimestichezza con ruoli che fanno tremare i polsi a interpreti ben più navigati. Pazienza, costanza e impegno sono stati richiesti ad artisti che si sono dimostrati duttili all'insegnamento dei docenti.

E i risultati sono stati evidenti. Uno, almeno, merita di essere opportunamente evidenziato: la cura – oseremmo dire maniacale – per il fraseggio, che mai come in questo caso è scaturito dal dominio della respirazione, dall'attenzione alla parola, dalla correttezza dell'impostazione vocale. È raro, per non dire impossibile, assistere a spettacoli en plein air – in questo caso la suggestiva cornice del Colonnato della Casa San Tommaso, già sede del Convento dei Padri Domenicani di Linguaglossa – in cui non una delle parole pronunciate sfuggiva all'ascolto, tanto nei recitativi, curati fino allo sfinimento (Pietro Paolo Gurrera sedeva al cembalo), quanto nelle arie, cartina di tornasole per valutare le potenzialità dei promettenti esecutori.

E ancora. Simone Alaimo, regista delle due opere, ha volutamente rinunciato alla pompa di fragorosi allestimenti, che talvolta mettono a dura prova gli interpreti. In questa occasione ha messo a profitto lo scenario naturale del sito, un imponente colonnato neoclassico, su cui si schiude l'ingresso della cappella del pio istituto, incorniciato dall'eleganza di due conifere secolari, poste ai lati del palcoscenico. Solo preziosi giochi di luce opportunamente modificano l'atmosfera evocata: intarsi cromatici ora dipinti di blu, nella notte del temporale del Barbiere o per descrivere il mood melanconico di Nemorino; ora screziati di arancio e carminio, per accendere la scaltra sagacia di Figaro e l'ardente passione di Rosina; ora nelle tinte del giallo e del verde, per descrivere l'assolata dimensione agreste dell'idillio donizettiano. In alto, le finestre circolari della chiesa, illuminate dall'interno, diventano occhi curiosi e impertinenti sull'implacabile scorrere dell'azione… Accuratamente selezionati, i costumi definiscono con efficacia di tratti l'azione scenica, con particolare riferimento per L'elisir d'amore, trasportato negli anni Cinquanta del Novecento grazie ad acconciature cotonate e deliziosi tubini a fiori: un sorridente sguardo al passato, a un'età dell'innocenza rievocata con simpatia e un pizzico di rimpianto.

Sulla scena agiscono due distribuzioni che, al di là delle singole prove, dimostrano affiatamento e indiscutibile abilità: con qualche bella conferma e alcune felici scoperte. La conferma – praticamente l'unica – è il Figaro spavaldo, sonoro, perfettamente in parte di Francesco Vultaggio, che sin dalla celeberrima cavatina di sortita mostra un'invidiabile consentaneità con il personaggio del barbiere andaluso. Non gli sfugge, soprattutto, la centralità del personaggio nel miracoloso meccanismo a orologeria di Beaumarchais, che qui viene esaltata nella progressione dei pezzi d'assieme, di cui Figaro è, naturaliter, incontrastato e smaliziato protagonista. Ma poi ci sono le belle scoperte, a cominciare da Roberta Celano, cui forse stanno stretti i panni di Rosina perché è un mezzosoprano di ben più importanti potenzialità, da mettere a frutto in un imminente futuro. Sin d'ora, tuttavia, dà prova di considerevole ampiezza di mezzi, di una caratura vocale piena e rotonda, di una coloratura fluida e sempre perfettamente sul fiato.

Compie un autentico exploit, dal canto suo, il tenore Carmine Riccio, che con ammirevole disinvoltura trascorre dai panni del Conte d'Almaviva a quelli di Nemorino. Il secondo gli si adatta forse meglio del primo, perché valorizza un timbro luminoso, argentino, di autentico lirico, e un impeccabile legato, che inevitabilmente brilla nella celeberrima, attesissima romanza del secondo atto, «Una furtiva lagrima», salutata da fragorosi applausi. Nel capolavoro rossiniano, superata l'emozione iniziale, firma una bella prova in crescendo, che culmina nel duetto «Pace e gioia sia con voi»: complice la contagiosa, irresistibile verve del Bartolo di Gianluca Tumino – a suo agio nelle mitragliate di sillabati, ma anche lui già indirizzato verso più impegnativi traguardi belcantisti – Riccio ritrova tutta la dimensione ironica del personaggio, la sagacia dell'amoroso che scommette sul fascino di una voce di strepitoso appeal: tanto che – per quanto se ne riconosca l'impervia difficoltà – quasi si rimpiange il taglio del Rondò finale, «Cessa di più resistere», che avrebbe coronato una prova di notevolissimo impatto. Con il tenore campano condivide l'impresa di un doppio impegno anche Domenico Mento, che alterna don Basilio a Dulcamara. E se nel primo caso sembra quasi interamente focalizzato a impostare il crescendo della temibile cavatina di sortita, è nei panni del medico ambulante, ospite del piccolo villaggio nei paesi baschi, che il basso messinese raccoglie meritati consensi: perché centra un ritratto in cui efficacemente coniuga musicalità, vis comica e bel canto, privo di quegli eccessi d'ordinanza che – troppo spesso – hanno contribuito ad appesantire e involgarire il personaggio. Per questo il meglio viene nella deliziosa Barcarola a due voci, come nei duetti con Nemorino e con Adina, in cui la bonomia contagiosa del sillabato diventa espressione di intelligenza, vivacità, spirito mordace.

Vengono da lontano, invece, sia Adina sia Belcore: non fosse per i tratti somatici, tuttavia, difficilmente si potrebbe notare la differenza con gli altri cantanti, tale è la perizia con cui affrontano le convenzioni del primo Ottocento italiano. E se Yusuke Ito è un Belcore complessivamente corretto, in bella evidenza nella cavatina di sortita, Sachimi Yamada conquista con un'Adina piccante e maliziosa, svettante negli acuti, limpida nell'articolazione, soprano lirico leggero ma di bella grana, adeguatamente pastosa. Meritano infine una menzione speciale, nei ruoli comprimariali, la deliziosa Berta di Cristina Di Mauro, la pimpante, perfetta Giannetta di Maria Grazia Caruso e infine – ben più di un cammeo “di famiglia” – l'Ambrogio di Vincenzo Alaimo; come l'agile compagine corale del Festival di Linguaglossa, limitata nel numero ma non nelle sonorità, capace di fare ricordare come, due secoli or sono, i componenti del coro si contassero sulle dita di due mani, senza per questo sfigurare.

E infine, last but not least, era notevole l'attesa per un altro debutto – di lusso. A capo dell'Orchestra Filarmonica del Mediterraneo – ancora non perfettamente omogenea, ma con alcune belle parti, come gli strumentini – è salito per la prima volta Gaetano Costa, al suo battesimo del podio. Già dagli applausi, che hanno salutato la Sinfonia del Barbiere rossiniano, sono apparsi chiari i due punti di forza di una concertazione che, se non ha avuto molto tempo per essere realizzata, almeno risultava lungamente meditata: il compiuto dominio delle due partiture – tempi, accenti, equilibrio tra buca e palcoscenico – e, soprattutto, il costante sostegno alle ragioni del canto, sempre indispensabile, ma ancor più necessario in un contesto come questo, in cui si trattava di supportare un cast in gran parte giovanissimo. E se in più punti emergeva una suggestiva ricerca di colori – la Serenata del Conte, il Preludio dell'Elisir – come di una vitalità insita nelle partiture, ma qui opportunamente dispiegata – il Quintetto del Barbiere, il tono scanzonato e impertinente del Coro con Giannetta, seguito dal frenetico Quartetto – è tuttavia nei due finali del primo atto che precisione, rigore e controllo dell'assieme si sono imposti: con un nostalgico affondo per un «Adina, credimi» soffuso di morbido languore, vaporoso, elegiaco. Brevi istanti di magia, lievi attimi d'incanto fermati in una sera d'estate, quando il bel canto diventa severa scuola di sentimenti: i più elevati che sia possibile concepire.

Giuseppe Montemagno

18/8/2016

Le foto del servizio sono di Salvatore Lo Giudice.