RECENSIONI
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TRA CONTI, DUCHI E RE, IL GOTHA 2016 DI WILDBAD

Dovizia di sangue blu quest'estate al Festival Rossini in Wildbad, nella Foresta Nera, tra conti e re nelle varie opere in cartellone, compreso un duca di Agrigento, quello di Bianca e Gernando di Bellini, su cui ho riferito in precedenza. Due dei tre titoli rossiniani, Demetrio e Polibio e Sigismondo, addirittura si spartivano equamente ben quattro re! Un quinto serto regale spettava però di diritto al mitico tenore ottocentesco Giovan Battista Rubini, che si è accaparrata un'intera sera grazie al recital dedicatogli da Maxim Mironov, atteso con vivissimo interesse.

La voce del tenore di Romano di Lombardia prediletto da Bellini, eccezionale per estensione, flessibilità, soavità ed espressività, non ha lasciato tracce sonore e, al di là dei giudizi tramandati, non rimangono che le note sugli spartiti da lui interpretati. Mironov aveva già sostenuto ruoli ricoperti da Rubini, tra i quali, proprio a Wildbad, quello del protagonista dei Briganti di Mercadante nel 2012 (che si può ascoltare nel CD di Naxos). Il tenore russo non ha la pretesa – così dichiara – di ricostruire la voce di Rubini, ma si conferma provetto belcantista, affrontando imperterrito con intelligenza, sensibilità e convinzione una serie di brani di varia indole e difficoltà, composti tra il 1812 e il 1838. Non un recital di brani familiari o popolari, trattandosi per lo più di pagine dimenticate di Louis Niedermeyer, Giuseppe Balducci, Michael William Balfe o note per sentito dire di Giovanni Pacini e Saverio Mercadante. Le hit erano però firmate da Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti e Vincenzo Bellini, mentre tre ouverture strategicamente inserite, da La pietra del paragone di Rossini, Falstaff di Balfe e Il reo per amore di Niedermeyer, davano meritata tregua allo strumento di Mironov. L'aria e cabaletta di Licida, ‘Il soave e bel contento… I tuoi frequenti palpiti', da Niobe di Pacini (1826), impervie, maliose e irresistibili oggi come nell'800, hanno meritato quattro minuti di scroscianti applausi, più di ogni altro brano. Ha concluso quale immancabile bis lo spagnoleggiante Brindisi dei Briganti. José Miguel Pérez Sierra ha diretto, con bell'ardimento, sicura mano e oculata attenzione di volta in volta alla peculiarità dei vari brani, i puntuali Virtuosi di Brno, coadiuvati validamente all'occasione dal Coro Camerata Bach di Poznan, come nello stupendo Bellini di ‘Tu vedrai la sventurata' e ‘Ma non fia sempre odiata' dal Pirata.

Opera seria in due atti, primissima dell'ancora adolescente Gioachino, Demetrio e Polibio, venne composta a frammenti, man mano che l'esordiente operista riceveva i versi, poco consapevole dell'argomento e apparentemente ignaro che ne sarebbe sortito un lavoro teatrale a pieno titolo.

Ma le virtù canore degli interpreti Domenico Mombelli e figlie, committenti dell'opera, non erano eguagliate da quelle letterarie della rispettiva consorte e madre, Vincenzina Viganò Mombelli, autrice del trito e insipido libretto. Andò in scena a Roma nel 1812 con contributi di Mombelli e in assenza di Rossini, che aveva fatto il suo esordio teatrale due anni prima. Stendhal ne fu estimatore entusiasta. È una storia di padri che si contendono anche con le armi i figli con nozze riconciliatrici alla fine. Il compositore precoce segue la scia dei maestri studiati e ascoltati, dimostrando già, di suo, cattivante invenzione melodica, intuito drammaturgico e perizia strumentale.

Nella bomboniera ottocentesca del Königliches Kurtheater Luciano Acocella dirige con autorevolezza e persuasivamente i Virtuosi di Brno, secondati dal Coro Camerata Bach di Poznan, mentre il fortepiano è affidato ad Achille Lampo. La regia di Nicola Berloffa è sommamente minimalista e trasporta nell'epoca attuale il conflitto tra Parti e Siri. I costumi sono di Claudia Möbius. Non si vedono che divise militari, armi e… sedie. Ma i quattro solisti e il coro bastano a riempire il limitato spazio scenico. Berloffa riesce perlomeno a vivacizzare lo scontato happy ending rendendolo meno happy e meno scontato: ormai insofferenti dei tirannici genitori i figli appena coniugati puntano le spade contro di loro mentre cala il sipario.

Pilastro dell'esecuzione, il contralto Victoria Yarovaya ha sfoggiato disinvoltamente nel ruolo en travesti di Siveno, uno dei figli in questione, un timbro morbido e cremoso e una tecnica “alpinistica”, già messi bene in evidenza l'anno scorso in Bianca e Falliero di Rossini, e brani solistici e insiemi se ne sono avvantaggiati. Le prestazioni degli altri interpreti andavano dall'aggraziata Lisinga, di Siveno amata e amante, del soprano Sofia Mchedlishvili, diligente nella coloratura ma un po' leggera per il ruolo, al decoroso Demetrio, sotto le spoglie di Eumene e padre di Siveno, del tenore César Arrieta, al problematico Polibio, padre di Lisinga, del basso Luca Dall'Amico, robusto sì ma asprigno anzi che no.

Quasi all'altro estremo dell'itinerario teatrale rossiniano si situa Le Comte Ory, andato in scena all'Opéra di Parigi nell'estate del 1828, che precede di un anno il congedo del trentasettenne Gioachino con il monumentale Guillaume Tell , sua trentanovesima opera. Le Comte Ory è opéra comique in due atti, su libretto di Scribe e di Delestre-Poirson, e riutilizza massicciamente la musica dell'occasionale Viaggio a Reims (Parigi 1825) – occasionale perché legato alla circostanza dell'incoronazione di Carlo X di Francia, quando non erano prevedibili la fortuna e la frequenza esecutiva che Il Viaggio avrebbe goduto dal 1984 in poi.

L' Ory appartiene a un Rossini ormai distante dal teatro comico italiano, che pure ha contribuito con genio prepotente a rinnovare in pochi anni. L'approdo parigino gli ha suggerito lo spirito sofisticato e ambiguo che pervade questa commedia sottilmente erotica e raffinata e squisitamente all'insegna dell'equivoco e della beffa. La vicenda dello scioperato rampollo di un severo conte all'epoca delle crociate e dei suoi ingegnosi quanto poco concludenti stratagemmi per sciupare gonnelle nobili o plebee, da solo o in combutta coi non meno scioperati compagni, che si alternano in clergyman e veli da suora, fino al fiasco conclusivo, è trattata con finezza ed eleganza e penetrante ironia tra le situazioni più spassose, esaltate da un Rossini ammaestrato da Mozart e in un certo senso anticipatore di Offenbach. Alla prima parigina l'opera riscosse un enorme successo e piacque immensamente al difficile Berlioz.

Nella sala della Trinkhalle Le Comte Ory è stato eseguito in forma semiscenica a cura di Nicola Berloffa con le sue indispensabili sedie quale unico corredo scenico. I solisti erano gli allievi dell'Accademia Bel Canto di Raùl Gimenez e Jochen Schönleber. Quest'ultimo è inoltre l'intendente-direttore artistico del Festival. Alcuni di questi allievi già l'anno scorso si erano fatti valere in varie prestazioni non trascurabili. Berloffa ha ben gestito solisti e coro di Poznan con esilarante fluidità di movimenti. La direzione dei soliti Virtuosi di Brno era nelle mani esperte di Luciano Acocella, attento a imprimere leggerezza e spigliatezza alla musica e vigile nella guida dei giovani talenti. Tra questi sono emersi più brillantemente, per virtù scenica e vocale, il baritono Roberto Maietta (Raimbaud), il mezzo soprano Karina Repova en travesti (paggio Isolier) e il soprano Sara Blanch (Contessa). Non hanno sfigurato il mezzo soprano Mae Hayashi (Ragonde) e il soprano Serena Sàenz Molinero (Alice), modesto invece è risultato il basso Shi Zong (Gouverneur). Quanto al protagonista, il tenore Gheorghe Vlad, supplisce con l'accattivante e versatile padronanza scenica a una voce piuttosto limitata e ancora in divenire. Oso affermare che questo Comte Ory mi è sembrato nell'insieme il titolo più avvincente del menù di quest'anno.

Se si eccettuano le stagioni liriche dei vari teatri, poco sappiamo della vita musicale nell'ottocentesca Napoli borbonica. Eppure la musica non era limitata ai teatri. A parte la musica delle chiese, nelle case patrizie e nei salotti della buona società si eseguiva di tutto, dalla musica strumentale a quella vocale. Di Giuseppe Balducci (1796-1845), nativo di Jesi come Pergolesi ed al pari di questi trasferitosi presto a Napoli, quasi nulla sapremmo senza l'assidua ricerca e la tenace promozione condotte dal musicologo neozelandese Jeremy Commons, autore tra l'altro del volume The Life and Operas of Giuseppe Balducci (Accademia nazionale di Santa Cecilia 2014). In qualità di amministratore e insegnante di canto presso la nobile famiglia napoletana Capece Minutolo, Balducci, di cui non è rimasto alcun ritratto, oltre a comporre per i teatri, scrisse una serie di opere da salotto con accompagnamento di pianoforti per le nobili allieve e le loro amiche. Allieve e amiche che ricoprivano anche ruoli maschili. A Wildbad era già stato riscoperto con successo nel 2011 Il noce di Benevento, purtroppo non ancora disponibile in CD (pare per disaccordi tra i pianisti). Quest'anno è venuto il turno del Conte di Marsico (Napoli 1839). Il libretto di Anacleto Balducci e Vincenzo Salvagnoli sviluppa in un prologo e due atti una vicenda medievale di contese di proprietà tra nobili famiglie complicate, attraverso varie peripezie, da amori contrastati, esili, identità nascoste, agnizioni, con un lieto fine che concilia gli opposti interessi fino a un momento prima inconciliabili.

Si ascolta una leggiadra successione di romanze con qualche insieme e un coretto affidato ad alcuni elementi del Coro Camerata Bach di Poznan, in cui si manifesta la fresca, scorrevole e invitante invenzione melodica di Balducci. Jochen Schönleber, che cura la regia, ambienta la vicenda ai giorni nostri, coi bei costumi di ClaudiaMöbius, e inserisce l'azione in un esilarante contesto di occupazioni domestiche e giardinaggio. Quando i guerrieri si devono battere non hanno bisogno di altre armi e armature che scope, secchi, bacinelle e stendibiancheria. Achille Lampo ha suonato con tocco espressivo e coordinato gli altri due diligenti pianisti Davide Bertorello e Federico Piccolo. Hanno reso gradevoli ed eloquenti i rispettivi ruoli il mezzo soprano Mae Hayashi (Agnese), il soprano Serena Sàenz Molinero (Chiara), il mezzo soprano Karina Repova (Gualtiero), il contralto Mar Campo (Ruggiero), il mezzo soprano Marina Viotti (Lucia) e il soprano Paula Sànchez-Valverde (Maria).

Il pubblico che gremiva il Königliches Kurtheater ha applaudito convinto con entusiasmo.

Rossini stesso riconobbe, sia pure a denti stretti, che Sigismondo, andato in scena alla Fenice di Venezia alla fine del 1814, meritava la fredda accoglienza del pubblico veneziano. Non essendo, pur con quel suo genio eccezionale, una macchina che sfornava ininterrottamente capolavori – quattro mesi prima aveva dato alla Scala di Milano Il Turco in Italia – non aveva diritto a un momentaneo calo di ispirazione? Né i due lunghi atti di quest'opera seria su libretto di Giuseppe Foppa erano tali da eccitare soverchiamente la sua creatività. Libretto di cui già all'epoca si disse assai male e che, per dire la verità, sembra scritto col… piede sinistro. La trama è quella già trattata da Rossini ben più succintamente nell'Inganno felice (1812), anche questo su libretto di Foppa, e rimanda all'arcisfruttato filone della Griselda di Boccaccio. Qui è complicata dalla pazzia intermittente del colpevolizzato re di Polonia, il protagonista, per aver fatto sopprimere la consorte Aldimira, a torto accusata d'infedeltà dal primo ministro Ladislao, spasimante respinto. In realtà Aldimira, che tra l'altro è figlia di Ulderico re d'Ungheria, vive nascosta e protetta da Zenovito. La conclusione prevedibile è che, dopo la sventata minaccia di guerra tra i due regni, Sigismondo recupera la ragione e la consorte nonché la benevolenza del suocero, mentre il villain che ha provocato tanti guai non sfugge al giusto castigo.

Certo anche un lavoro minore di Rossini racchiude qualche pagina preziosa e in questo Rodolfo Celletti afferma addirittura di sentire odore di riforma. Purtroppo il Sigismondo dato alla Trinkhalle lascia alla fine insoddisfatti malgrado alcuni punti di forza del cast. L'impegno del direttore Antonino Fogliani e dei Virtuosi di Brno e del Coro Camerata Bach di Poznan, con Michele D'Elia al fortepiano, non è bastato di fronte alla discontinuità vocale e scenica del mezzo soprano Margarita Griskova nel ruolo en travesti del protagonista. Ha salvato il salvabile il soprano Maria Aleida (Aldimira) e si sono disimpegnati più o meno correttamente gli altri, dal tenore Kenneth Tarver (Ladislao), appena adeguato nelle vesti del malvagio, al tenore César Arrieta (Radoski), al soprano Paula Sànchez-Valverde (Anagilda). Modesto infine il basso Marcell Bakonyi nei due ruoli di Zenovito e Ulderico. Costumi senza infamia e senza lode di Claudia Möbius, scenografia di Robert Schrag, consistente in tutta una serie di specchi tra cui si aggira il folle protagonista alla ricerca della sua vera immagine, che però hanno intralciato notevolmente i movimenti della regia di Jochen Schönleber.

Fulvio Stefano Lo Presti

20/8/2016

Le foto del servizio sono di Toni Bofill e Patrick Pfeiffer.