Fidelio
la sublime utopia della libertà
Un'urgenza di carattere etico spinge Beethoven alla composizione del Fidelio. Un titolo che l'Accademia di S. Cecilia ha voluto significativamente proporre come spettacolo inaugurale della stagione, in quanto portatore di temi oggi più che mai importanti in un'Europa in crisi di valori. L'ideale libertario, quella densità morale che parla dei diritti inviolabili dell'individuo pervade l'intera vicenda. Il sipario si apre su un idillio apparente, un sogno arcadico di stampo mozartiano dietro il quale si cela un mondo ben più tormentato. La dialettica fra luce e ombra innerva la drammaturgia. Il misterioso Florestan, imprigionato nelle segrete più buie e profonde, non è la sola vittima del tirannico potere del crudele Pizarro. Un'umanità afflitta e sofferente si muove all'interno del carcere, perseguitata per motivi che sappiamo ingiusti. La dedizione di Leonore, introdottasi nella prigione in abiti maschili, non salverà solo il tormentato consorte, ma otterrà risultati ben più ampi. L'amore coniugale trascende i propri limiti assurgendo a una dimensione di metafisica ampiezza. La luce, offerta ai prigioni con un effimero gesto di pietà nel primo atto, irrompe inarrestabile nel finale. Le utopie di matrice schilleriana, che troveranno suprema espressione nella Nona, si mostrano qui in maniera esemplare. Il modello dell'opera à sauvetage, della quale Lodoïska di Cherubini è l'esempio più noto, risulta perfettamente funzionale a Beethoven. Un incontro destinato a restare un unicum nella produzione del genio di Bonn, poco incline a seguire le sirene del teatro musicale.
L'esecuzione in forma di concerto non fa rimpiangere l'assenza di scene, grazie anche alla bravura attoriale dei protagonisti. Riguardo il cast, Günther Groissböck sfoggia una voce calda e profonda, che gli permette di tratteggiare un Rocco di grande umanità ed estremamente comunicativo. Del pari eccellente Sebastian Holecek, un Pizarro brutale nella sua cieca e ottusa malvagità, adeguatamente robusto nell'aria rabbiosa del primo atto. Rachel Willis-Sørensen delinea una Leonore dal taglio lirico, leggera e fin troppo misurata nell'espressione. Nel complesso canta piuttosto bene, anche se appare timorosa negli acuti estremi, emessi sempre con una cautela che non si attaglia al personaggio di Leonore. Simon O'Neill è un Florestan limitato da un timbro nasale e poco accattivante, ancorché volenteroso. Sufficientemente autorevole il Don Fernando di Julian Kim, apprezzabile la coppia Amanda Forsythe (Marzelline) e Maximilian Schmitt (Jaquino). La direzione di Pappano appare, come di consueto, brillante e appassionata. Le atmosfere da commedia rustica della prima parte, pur tratteggiate con classico nitore, lo coinvolgono meno. Il meglio viene quando il libretto volge ai suoi culmini drammatici, nelle corrusche e claustrofobiche atmosfere del carcere, nell'esecuzione della Leonore 3, ouverture capolavoro espunta e in seguito reintrodotta da Mahler fra la prima e la seconda scena del secondo atto, nella grande apoteosi conclusiva. Limpido e pieno il suono dell'Orchestra dell'Accademia, prezioso l'apporto del coro.
Successo caloroso per tutti.
Riccardo Cenci
23/10/2016
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