Fidelio
alla Scala di Milano
Fidelio, opera in due atti di Ludwig van Beethoven, è proposta al Teatro alla Scala nell'allestimento, ideato da Deborah Warner, che inaugurò la stagione 2014-2015. Composta tra il 1803 e 1805, andò in scena più volte a seguito di altrettanti rimaneggiamenti, fino alla definitiva versione del 1814 e con ben quattro overture diverse che prenderanno il titolo di “Leonore”. Spettacolo non memorabile, cosi lo ricordavo e cosi l'ho trovato, ma Deborah Warner è una regista che sa cosa vuol dire teatro di recitazione e da questo punto di vista il risultato è molto piacevole poiché racconta con chiara drammaturgia senza voler a tutti i costi proporre soluzioni contorte. La scena, ideata da Chloe Obolensky, è moderna e sembra la ricostruzione di una fabbrica novecentesca in disuso, che assieme alle splendide luci di Jean Kalman (riprese di Valerio Tiberi) crea un ambiente molto reale, memorabile il calcio di una guardia alla parete laterale che segna l'inizio del quadro finale. Costumi, sempre della Obolensky, che rappresentano il tallone d'Achille della produzione, troppo convenzionali e di scarsa originalità e comprensione.
Sarà proprio l'ouverture Leonore 3, per scelta del direttore Myung-Whun Chung, ad aprire insolitamente l'esecuzione della serata. Rimpiangiamo l'ouverture Fidelio e avremmo preferito la consueta esecuzione della n. 3 tra la scena I e II del secondo atto ma è solo gusto personale. L'esecuzione scaligera trova un punto di forza nella bacchetta del direttore coreano, il quale sotto alcuni aspetti ci ha sorpreso e conturbato. Certamente egli è al di fuori della consueta concezione e possiamo affermare che l'acceso spessore lirico inferto alla partitura la fa da padrone e pone un denominatore molto efficace soprattutto nel primo atto, nel quale il celebre quartetto trova una non singolare esecuzione ma una mirabile indiscutibilità d'effetto romantico. Il lirismo espresso da Chung, se da un lato trova efficaci soluzioni, come il duettino tra Marzelline e Jaquino, dall'altro è frenante nei passi più tesi come l'entrata di Pizzarro e possiamo aggiungere anche il finale della stessa ouverture. Nel secondo atto seguendo questa impostazione sembrerebbe remare tutto contro, invece Chung trova soluzioni efficaci con sonorità misurate ma molto tese. L'eroismo ne esce ridimensionato ma non cancellato, tuttavia è sempre l'impatto drammatico che avrebbe forse preteso qualche sferzata più incisiva, terzetto della cisterna e finale. Indubbiamente ci troviamo di fronte a una concertazione moto raffinata, cesellata in ogni dettaglio e con un forte senso poetico, che si colloca come altro modo di interpretare Fidelio, e ne apprezziamo le intenzioni, anche se forse per gusto personale avremmo preferito anche altre soluzioni.
In tale occasione è d'obbligo porre l'accento sulla strepitosa performance dell'Orchestra, nella quale gli ottoni hanno una perfezione magnifica. E altrettante lodi si devono felicemente spendere per il Coro, diretto da Bruno Casoni, compatto, preciso, raffinato e lieve nel finale atto I, fastoso e vibrante nel finale II.
Nel cast non stellare la Leonore (Fidelio) di Jacquelyn Wagner, che ricordavo piuttosto anonima Eva nei Maestri lo scorso anno, ha il pregio di non urlare, come di consueto avviene, ma modera una voce limitata sia nello spessore sia nell'ampiezza alle esigenze dello spartito. Non sempre vi riesce, ovviamente per limiti, ma le intenzioni sono apprezzabili. Intenzioni e qualità vocali che mancano per intero a Stuart Skelton, Florestan, un tenore che ha sempre problemi d'intonazione (terrificante l'attacco di “Gott, welch Dunke hier!”) e una proiezione vocale monocorde e rasente allo strillo.
Pertanto quando arriva in scena Luca Pisaroni, Pizzarro, sembra di essere catapultati in altro universo. Forse la voce non è possente ma il canto è legato e ben eseguito in una tenuta lineare molto ricercata nel colore e nel fraseggio. A differenza dei colleghi non bercia mai poiché è l'accento che influisce nella sua interpretazione, la quale anche dal punto di vista scenico è eccellente.
Stephen Milling era un Rocco vocalmente imponente e sostanzialmente molto ben realizzato. Fragile e limitata la Marzelline di Eva Liebau, sempre coperta dai colleghi o dall'orchestra, più incisivo e professionale lo Jaquino di Martin Piskorski, e accettabile, ma senza carisma, il Fernando di Martin Gantner. Bravi i due prigionieri solisti: Massimiliano Di Fino e Marco Granata.
Buon successo al termine, con ovazioni per Chung, ma in teatro si registravano parecchi vuoti per un'opera capolavoro come Fidelio.
Lukas Franceschini
8/7/2018
Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano.
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