Fidelio
alla Scala di Milano
Per la terza volta nel corso della sua lunga storia, il Teatro alla Scala sceglie Fidelio, unico titolo operistico di Ludwig van Beethoven, per l'apertura della stagione. Fidelio ha un debutto molto tardivo nel teatro milanese se si pensa che la prima esecuzione fu nel 1927, per volere di Arturo Toscanini, quale manifestazione per il centenario della morte dell'autore. Il soggetto, dal dramma Léonore ou L'amour conjugal di J. N. Bouilly, era già stato utilizzato da altri compositori ma in chiave non sempre drammatica. Beethoven vi lavorò tra il 1803 e il 1805, anno in cui andò in scena la prima versione con il titolo di Leonore, ma il successo non fu clamoroso. Il vero trionfo avvenne nel 1814 con la versione definitiva, alla quale contribuì il poeta e attore Treitschke che inserì alcune situazioni molto riuscite. Per le molteplici versioni il compositore aveva creato quattro ouverture, le quali prendono il titolo di Leonore. La prima non fu mai utilizzata, la seconda (in realtà la prima composta) fu utilizzata per la versione in tre atti dell'opera nel 1805, la celeberrima terza fu musicata tra il 1805/1806 e utilizzata per la seconda versione del Fidelio in due atti, tuttavia il brano s'impose in maniera autonoma in sede concertistica e il suo inserimento nell'opera prima della scena finale è successivo alla morte dell'autore. L'Ouverture Op. 72 (la quarta) fu composta nel 1814 e fu il brano iniziale dell'ultima versione dell'opera e quella solitamente utilizzata tutt'oggi. Benché Beethoven pensasse e progettò altri lavori teatrali, Fidelio (nelle varie versioni) rimane la sua unica opera lirica. In tale lavoro si riscontrano gli ideali già espressi anche in campo sinfonico: l'anelito alla libertà e all'amore contro il sopruso e l'arbitrio della tirannia, un utopistico ma efficace ideale per uscire dalle tenebre dell'ingiustizia e del male. È l'amore coniugale che traccia il segmento portante dell'opera, quell'amore di Leonora per Florestano che la spinge ad estremi rischi, anche la morte, nell'ideale sincero di un amore puro. Al fianco di tali caratteristiche s'intrecciano sia l'ideale di giustizia e libertà, nella monumentale scena corale finale, sia il carattere del singspiel, al quale Fidelio dovrebbe appartenere, anche se Beethoven vuole distaccarsene, focalizzando dai personaggi di Rocco, Marzelline e Jaquino che nel primo atto tengono banco, ma non appena si entra nel dramma vero e proprio lasciano la scena agli altri personaggi. Le ripartizioni insite in Fidelio sono riscontrabili nella concezione abnorme che l'autore aveva, il quale mira a rappresentare soltanto alcuni momenti dei suoi personaggi protagonisti, in una dimensione simbolica ma eccezionalmente umana del grande contrasto tra il bene e il male.
Fidelio rappresenta un caso unico non solo nella storia dell'opera lirica ma anche nella produzione beethoveniana: ben superiore al linguaggio del singspiel, è la grande enfasi sinfonica a monopolizzare lo spartito, il quale è intriso di temi e variazioni di forte impatto espressivo abbinato ad un ideale supremo sia privato sia pubblico (siamo dopo la Rivoluzione Francese) ad esempio per l'umanità.
Lo spettacolo era firmato da Deborah Warner, debuttante alla Scala, affiancata da Chloe Obolensky, scene costumi, e Jean Kalma alle luci. L'ambientazione è moderna, attuale, però atemporale, non ci sono epoche per i soprusi. È un allestimento molto teatrale e scorrevole, che non accontenterà i puristi, ma è autentico teatro di regia. Raramente capita di assistere ad una regia così accurata, minuziosa ed in perfetta sintonia con la musica, valida anche in espressioni e piccoli gesti che rendono il dramma intensamente teatrale e di rapimento per il pubblico. Inoltre, e forse lo rilevo sovente, è un teatro credibile e comprensibile a tutti, e questa è chiave imprescindibile per qualsiasi nuova e diversa lettura dell'opera. Potremo definire lo spettacolo anche “global” ma crudo, il clima è da gulag o prigione ai confini del mondo, i sentimenti sgorgano dalle lacrime e dalle situazioni rese alla perfezione da quella scena desolante ma maestosa e disperatemene spoglia. I costumi sono felpe, anfibi, un vestiario non certo ricercato ma che si adatta alla perfezione al dramma. Pizzarro è in giacca senza camicia e cravatta, l'unico ad indossare un abito scuro, quello del potere. La regista, a mio vedere, avrebbe potuto avere più enfasi creativa nella scena dell'uscita dei prigionieri, ma è un piccolo dettaglio. Si rifà nella scena dello squallore della tomba, buio da thriller, giocando in maniera perfetta il finale con tutto il popolo che entra festante, un accecamento di sciarpe rosse, tute da lavoro, pattuglia di militari che assaltano la prigione, e arriva la luce, una luce abbagliante segno di trionfo e libertà.
Daniel Barenboim, alla sua ultima fatica quale direttore musicale della Scala, ci regala una delle sue più preziose direzioni, magari lenta ma collaudata e perfezionata in ogni singola nota. Sceglie di eseguire come ouverture la Leonore II, forse la meno bella, ma è teatralmente di forte impatto. A lui si piega come un arco di violino tutta l'orchestra in forma smagliante, mai uditi gli ottoni così puliti e precisi, in una lettura che si potrebbe definire sinfonica, ma allo stesso tempo carica di una drammaticità incommensurabile. Questo era principalmente il punto di forza di questo Fidelio, giacché la compagnia di canto dimostrava notevoli lacune.
Anja Kampe è più brava attrice che cantante, il registro acuto è sovente gridato, l'intonazione precaria e la sezione centrale non particolarmente suggestiva. Tuttavia meglio di Klaus Peter Vogt che del tenore eroico non ha proprio nulla, regge la parte ma siamo ben lontani dal parlare di un'esibizione rilevante. Falk Struckmann è un solido Pizzarro, ancora capace di grande espressionismo e meritevole di plauso per l'aderenza vocale e psicologica del ruolo. Ancor meglio il Rocco di Kwangchul Youn che giustamente evita accuratamente il carattere “comico” del ruolo nel primo atto, ed è un solido e manierato carceriere di salda tempra vocale. Meno felici i due giovani della vicenda, Mojca Erdmann è pungente vocalmente e priva sia di smalto vocale sia di verve, Florian Hoffman scompare sotto tutti i punti di vista. Il migliore in locandina è Peter Mattei, un Don Fernando maestoso e vibrante, autorevolissimo di voce, che purtroppo è stato relegato ad un piccolo cameo.
Ottima la prova del coro diretto da Bruno Casoni, che anche in quest'occasione ha meritato il plauso vibrante del pubblico, compresi Oreste Cosimo e Devis Longo negli interventi solisti nel finale atto I.
Lukas Franceschini 30/12/2014
Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano - Teatro alla Scala.
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