Fierrabras
alla Scala di Milano
Franz Schubert è ricordato giustamente come illustre musicista, meno in qualità di operista. Non deve pertanto stupire se Fierrabras arriva al Teatro alla Scala solo nell'attuale stagione. Fierrabras è un'opera "eroico-romantica" ambientata al tempo delle Crociate, in particolare della spedizione di Carlo Magno in Spagna contro i Mori per la riconquista delle sacre reliquie, sottratte a Roma dal principe Boland. Per il teatro Franz Schubert compose undici lavori, altri sette restarono incompiuti, in un periodo breve dal 1812 al 1828 (anno della morte). Effettivamente i titoli non sarebbero pochi neppure per la prassi compositiva d'inizio ‘800, e l'opera non era un genere estraneo alla natura e agli interessi di Schubert, anche se non raggiunse i livelli delle altre composizioni. L'ambizioso Fierrabras è l'ultimo grande lavoro per il teatro composto e interamente finito. Commissione del Karntnertortheater di Vienna, che a quel tempo perseguiva una politica di ampliamento del repertorio in lingua tedesca, contro la sempre perdurante invadenza italiana. Il teatro era diretto dal celebre Domenico Barbaja, ma più che l'impresario, sulla scelta aveva influito il segretario del teatro, Josef Kupelwieser, che era poi anche l'autore del libretto. Schubert scrisse la musica in un semestre con la rapidità che gli era propria. La prima rappresentazione era prevista per la fine del 1823; ma il successo tiepido ottenuto dall'Euryanthe di von Weber, opera simile cavalleresca eseguita in ottobre, provocò una brusca inversione di tendenza nei programmi artistici del teatro, preferendo titoli italiani, e provocando le dimissioni di Kupelwieser. Sicché, rimasta senza padrini, l'opera di Schubert fu dapprima rimandata, poi definitivamente accantonata. Non fu mai rappresentata durante la vita del suo autore. La prima rappresentazione fu a Karlsruhe il 9 febbraio 1897, in un'edizione molto rimaneggiata per il centenario della nascita del compositore. In seguito vi furono esecuzioni, non integrali, in forma di concerto, per arrivare al 1988 alla Staatsoper di Vienna quando fu eseguita in forma scenica e nella sua interezza nell'ambito del Wiener Festwochen.
Nei tre atti dell'opera i motivi drammaturgici si dispongono in un modo assai variegato, per così dire a raggiera: anziché fondarsi su un elemento stringato e concentrato, l'opera tende a dilatarsi in più direzioni, fino a disegnare un orizzonte poetico e musicale aperto, ricco di contrasti e di tensioni. Fierrabras si allinea e prosegue la tradizione dell'opera romantica tedesca del primo Ottocento, risentendo di un clima tanto impastato di miti poetici e collettivi quanto punteggiato di richiami ai grandi ideali del mondo antico. Dimensione nella quale s'inserisce, e agisce in profondità, la musica di Schubert, creando un'entità nuova. Una musica non di stampo teatrale ma ispirata, la quale colma i tempi e gli spazi del teatro con una decisa, prorompente autonomia. Più che a definire la drammaturgia, essa mira a evocare, svelando che la sua visione del teatro è di stampo soprannaturale, fiabesca, simbolica e anche onirica.
Lo spettacolo, che non ha proprio convinto, era una produzione del Festival di Salisburgo 2014, ideato da Peter Stein, regia (qui a Milano ripresa da Bettina Geyer e Maro Monzini), Ferdinand Wogerbauer, scenografo, Anna Maria Heinreich, costumista e Joachim Barth, disegno luci. Peter Stein ci riporta indietro nel tempo, quando gli spettacoli si creavano con i fondali, e non sarebbe un gran male se però si potesse parlare di spettacolo di regia. I fondali in bianco e nero erano anche belli, e derivati da iconografie antiche, ma il continuo cambio scena a sipario chiuso e l'onnipresente monocromaticità erano un po' pesanti. Il medioevo riletto dal regista è più pittorico e descrittivo che teatrale e non ci sono elementi che possano convergere su una vicenda così complessa e allo stesso tempo cavalleresca. I costumi sono molto belli ma anche questi stereotipati all'immaginario collettivo, bianco per i crociati, nero per i musulmani e ben delineato il disegno luci. Il finale ci offre una chicca veramente dozzinale, il cuore rosso che compare sul fondale, segno ed elemento di pace, riappacificazione e amore tra le coppie protagoniste.
Per fortuna sul podio c'era Daniel Harding, un direttore che dovrebbe essere più presente nei cartelloni scaligeri. Harding dirige con grande precisione, nitida chiarezza d'accento e forte sensibilità teatrale. La ricchezza della partitura è amministrata in asciuttezza e accorato romanticismo, il quale non cade nel patetico sentimentalismo, ma evoca emotivamente un continuo proficuo utilizzo di corpo orchestrale, nel quale le vibrazioni sono accento peculiare. Le qualità sonore non sono mai utilizzate agli estremi ma in un contesto narrativo accurato e di rilevante ascolto. In quest'avvincente concertazione è evidente che l'apporto dell'Orchestra della Scala, in forma smagliante, è stato di primaria importanza. Altrettanto possiamo affermare per il Coro, diretto da Bruno Casoni, che in quest'opera ha parte non di contorno ma di forma quasi protagonista.
Il cast nel suo insieme non era straordinario seppur con qualche distinguo. Bernard Richter, il protagonista, è un tenore con timbro non accattivante e acuti non del tutto calibrati ma l'interpretazione è positiva e alcuni passi d'espressione erano risolti con efficacia. Anett Fritsch, Emma, è un sopranino compito e talvolta educato e partecipe scenicamente, ma gli acuti sono davvero troppo stimbrati. Peter Soon, Eginhard, è un interprete soddisfacente, la voce non di primissima scelta è utilizzata con belle sfumature e mezzevoci ma il registro acuto non è rifinito e poco stilizzato. Dorothea Roschmann, Florinda, probabilmente debuttante alla Scala, arriva in extremis a Milano dopo lunga e bella carriera. Infatti lo smalto della voce, sempre di prim'ordine, risente di talune prudenze in acuto (peraltro limitato oggi) ma le sezioni centrali e gravi sono di grande fascino e bel timbro che sfodera soprattutto nei momenti patetici, cui dona un'interpretazione di forte resa teatrale.
Si mette in luce il Roland di Markus Werba, ottimo interprete e cantante raffinato che possiede una voce pastosa e morbida che gli permette un canto sempre forbito e di ottimo gusto. Tomasz Konieczny, Carlo Magno, è un basso con voce possente ma usata senza stile e grezzo nel gusto, altrettanto si deve registrare per la prova di lauri Vasar, Boland. I due bassi per identificarsi nei ruoli di cattivi vociferano senza misura. Nelle parti minori Marie Claude Chappuis, Maragond, è cantante precisa e musicale, Gustavo Castillo è un professionale Brutamonte, Alla Samokhotova una puntuale damigella e Martin Piskorski si mette in luce per limpidezza d'emissione e precisa tecnica nel ruolo del paladino Ogier.
Lukas Franceschini 24/6/2018
Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano-Teatro alla Scala.
|