RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il trionfo di Rosina

Ci sono Barbieri e Barbieri, tutto sta a trovare le motivazioni per produrli. Secondo titolo operistico del ricco cartellone del Luglio Musicale Trapanese, Il barbiere di Siviglia aveva almeno due ottime ragioni per essere stato programmato: la prima era il raccordo con il Concorso “Giuseppe Di Stefano”, visto che ne erano interpreti – in gran parte, ancorché con due eccezioni – i vincitori della XVIII, ultima edizione. Certo il rischio era assai elevato, ma è fondamentale che giovani validi trovino una ribalta per focalizzare e finalizzare gli sforzi di anni di studio. I vincitori dei ruoli di Figaro e del Conte si sono ritirati dalla produzione, per ragioni personali, ma gli altri erano il frutto di una selezione che ha dato ottimi esiti. La seconda ragione, forse ancor più ghiotta per il melomane rossiniano, era la scelta di mettere a frutto alcune delle possibilità offerte dall'edizione critica dell'opera e, in particolare, di optare per la versione bolognese dell'opera, andata in scena al Teatro Contavalli il 10 agosto del 1816, meno di sei mesi dopo il travagliato debutto all'Argentina di Roma, il 20 febbraio dello stesso anno. Fu l'edizione del riscatto, fortemente voluta dalla prima interprete del ruolo di Rosina, Geltrude Righetti Giorgi – con cui peraltro, ai tempi dell' Equivoco stravagante, il Pesarese pare avesse intrecciato una romantica liaison . Fatto sta che l'artista, che aveva ben compreso le potenzialità dell'opera, chiese alcune sostanziali modifiche, che ne avrebbero radicalmente mutato la sorte. Fu la prima volta, infatti, che l'opera venne presentata con il titolo con cui oggi è nota, mentre alla prima era stata proposta come Almaviva, ossia L'inutile precauzione, nel tentativo di eludere le ire degli estimatori paisielliani. Ma soprattutto Rossini decise di apportare due interventi sostanziali: la ‘scena della lezione' venne interamente riscritta dall'autore, che approntò l'aria «La mia pace, la mia calma» – sarebbe stata riesumata soltanto nel 1983 da Marilyn Horne, in uno storico disco di arie alternative dirette da Alberto Zedda. E il colpo di genio arrivò al finale, perché venne attribuito a Rosina il rondò «Cessa di più resistere», inizialmente devoluto al Conte d'Almaviva: pochi mesi più tardi sarebbe transitato nel finale della Cenerentola, sempre su richiesta del mezzosoprano bolognese. Ne scaturisce un significativo giro di vite impresso alla volitiva Rosina: è lei, alla fine dell'opera, a mettere a tacere don Bartolo, imponendo con risolutezza le sue scelte di vita e sottraendosi alle imposizioni del tutore. Tra tutte le eroine rossiniane, diventa così una tra quelle che più vistosamente si sottraggono allo stato di servaggio cui era condannata la donna nell' ancien régime.

Questa scelta, che ulteriormente aggrava le difficoltà del ruolo, ha visto trionfatrice della serata la giovane ma già matura Sayumi Kaneko, che dosa perfettamente le forze in vista del successo finale. Le si perdonano alcuni inciampi di pronuncia, ampiamente compensati dall'ironica presenza scenica, dalla rotondità del timbro, dall'eleganza del fraseggio, dalla sicurezza con cui affronta la coloratura: il finale la vede protagonista di smaglianti roulades che efficacemente traducono l'energia vitale del personaggio. Ma è da elogiare l'intera costruzione del ruolo: sin dalla celeberrima cavatina di sortita, si ha la sensazione di avere a che fare con un'agguerrita macchina da guerra, pronta a forgiarsi un destino di emancipazione e di libertà.

Figaro e il Conte, come si accennava, sono già professionisti in carriera. Già allievo dell'Accademia Rossiniana di Pesaro, Diego Savini, il barbiere, è uno di noi: arriva sfrecciando in platea in bicicletta, mette a segno un «Largo al factotum» sicuro, ben proiettato, persuasivo. Dispone di un'emissione franca, di un ampio ventaglio espressivo, ma soprattutto di quello slancio giovanile che rendono Figaro l'autentico, mercuriale deux ex machina dell'azione. Nei panni del Conte di Almaviva, Riccardo Benlodi – come sul dirsi – si farà, e speriamo anche bene: gli nuoce ancora una presenza scenica algida, per non dire impassibile, e questo si traduce nella compassata eleganza con cui costruisce il ruolo. In attesa che ne individui la sprezzatura, si apprezzano le sue doti di tenore leggero, la forbita eleganza con cui delinea la prima strofa della serenata, prima di infervorarsi nella seconda. Complessivamente accurati entrambi i travestimenti, il secondo dei quali, quello di don Alonso, risulta più riuscito.

Ottime le presenze dei due bassi, che per una volta non vengono presentati come due anziani barbogi, ma come due uomini – maturi, certo, ma non sul viale del tramonto. Tratteggia un giovanile e piacente Bartolo Pierpaolo Martella, che infatti a settembre debutterà in Scala nello stesso ruolo nell'edizione affidata agli allievi dell'Accademia del Teatro. È autoritario e capriccioso, ordina e comanda, vuole tutti al suo servizio: «A un dottor della mia sorte» ne è l'efficace, dispotica traduzione musicale, con un'invidiabile scioltezza nei sillabati. Mezzi eloquenti connotano anche il Basilio del giovane Mariano Orozco. Il basso argentino dispone di un timbro morbido, suadente, efficacemente messo al servizio di un'accurata definizione del personaggio. Evita gli eccessi di tradizione e, proprio per questo, propone una versione fresca e accattivante del ruolo: un finto cieco, in tonaca nera e calzini rosso cardinale, che solo alla fine rivelerà di essere perfettamente vigile e pronto a intascare il compenso del Conte. Meritano una menzione anche la Berta di Sara Semilia, svettante nel concertato del finale primo, come il poderoso Ufficiale di Francesco La Gattuta. Ancora, Antonino Arcilesi è un grifagno, accorto Fiorello, mentre Alessio Parisi è Ambrogio.

Note positive anche per la parte squisitamente strumentale, affidata a una bacchetta di sicuro impegno quale quella di Daniele Agiman, direttore principale dell'Orchestra Sinfonica “G. Rossini” di Pesaro. Certo bisogna inizialmente acclimatarsi all'acustica non proprio ottimale di uno spazio en plein air, quale quello del suggestivo Teatro “Giuseppe Di Stefano” della Villa Regina Margherita: dalla fossa orchestrale i suoni risultano attutiti, come ovattati. E però i colori della partitura rossiniana sono tutti lì, il piglio narrativo fluido e accattivante, la gestione dei recitativi impeccabile. Si ha la sensazione di uno spettacolo rodato, di una lettura che dipana i momenti topici con esperienza e smalto, dell'irreprensibile scansione con cui accompagna arie e concertati. Il Coro maschile, preparato con la consueta perizia da Fabio Modica, è come sempre una certezza di coesione, affiatamento, bell'impatto.

Più ambiziosa è l'impaginazione scenica firmata da Danilo Coppola. Un po' à la manière del folgorante cubo rosso del Macbeth scaligero di Graham Vick, il giovanissimo artista siciliano immagina un cubo bianco che, ruotando, rivelerà gli interni della casa di don Bartolo. I riferimenti si infittiscono all'interno di una casa di bambole che strizza vistosamente l'occhio al rosa di Barbie ma che, al tempo stesso, è suggellata da una vertiginosa fuga di scale alla Escher: un labirinto in cui si muovono personaggi in cerca di identità e di certezze, negate dagli arredi – che solo di rado sono nel verso giusto. Dall'alto pendono poltrone, dal basso si ergono lampadari, solo il clavicembalo, iconico simbolo della musica, campeggia al centro della scena: luogo intorno al quale ruota una commedia degli equivoci, che però Coppola non vuole per nulla buffa. Si ride semmai a denti stretti – come suggeriva una nota rubrica enigmistica – di fronte alla stratificazione sociale imposta dai costumi: con il rosa pomposo della gonna della protagonista a imporsi sul Settecento d'ordinanza e sulle pesanti parrucche dei personaggi ancorati al passato, mentre Figaro esibisce un gilet a quadrettoni e un baffetto impertinente. Quasi a ricordare come gli equilibri rischino di essere sempre molto precari, sulla scena come nella vita.

Giuseppe Montemagno

10/8/2023