Siamo qua come agli orli della vita…
La favola del figlio cambiato
Nella sua sterminata produzione letteraria, Pirandello ha più volte avvertito l'esigenza di uno sconfinamento nel fantastico, rimodulandolo secondo le esigenze della sua poetica: l'elemento fiabesco, o nero, o comunque eccedente e trasbordante i moduli del realismo, viene assunto quale simbolo significante una situazione paradossale, come in La patente, o piegato ad esigenze che diventeranno la chiave di volta del teatro nel teatro, come per i Dialoghi coi personaggi, antesignani dell'inquietante architettura dei Sei personaggi in cerca d'autore, o ripreso dalla tradizione siciliana e inquadrato in un'atmosfera quasi mitica, come Mal di luna e Il figlio cambiato. Da quest'ultima novella prenderanno poi vita sia il libretto per l'opera di Malipiero, sia l'omonima pièce teatrale, dramma a lieto fine più che commedia: La favola del figlio cambiato, ideale punto di raccordo tra il teatro nel teatro e il teatro del mito, culminante ne I giganti della montagna, dove la meditazione sulla relegatio dell'arte ai margini di un mondo che non la comprende più e non si cura più di essa, assorbito ed assordato da un frastuono che sommerge ed heideggerianamente vanifica la parola artistica, raggiunge il suo incompiuto acme.
Di questa problematica sottesa al fantastico pirandelliano è stato ben cosciente Guido Turrisi, che domenica scorsa al Centro Zo di Catania ha presentato al pubblico il penultimo appuntamento della rassegna Percezioni 2013-2014; la sua regia, dove l'essenzialità ha sempre rappresentato un tratto irrinunciabile, sigla e simbolo di una ben precisa concezione del teatro, dove il testo, con la sua peculiarità, sottomette gestualità, elementi scenici e sinanco gli attori, al fine di una resa che lo rispetti sin nelle sue più recondite intenzioni, e al tempo stesso in tutte le sue potenzialità, ha superato stavolta quasi se stessa, offrendo su un palcoscenico (ma sarebbe meglio dire uno spazio scenico) pressoché nudo la pura parola pirandelliana, centellinata e cesellata in pause, gesti, improvvisi slanci, originali mutamenti ed assenze di luce, affinché la ridondanza semantica ed ideologica del lavoro, monito non implicito ad un mondo disumanato, emergesse in tutta la sua cruda ed abbacinante nudità.
E a questa crudezza è stata improntata la recitazione di Antonio Caruso, nei panni di Cotrone, deus ex machina della messinscena metateatrale e attore di quella teatrale; a lui è stato affidato il difficile compito di mantenere in perenne bilico queste due dimensioni, col suo personaggio pirandelliano che, come già altre volte, ha interpretato con mimica magistrale e dizione eccellente, scolpendo sin nei minimi gesti il mago che tramuta i sogni in realtà nella sua villa incantata agli orli della vita, dove giunge una malmessa compagnia di attori, ormai privi di tutto, per mettere in scena appunto La favola del figlio cambiato.
Ottima l'interpretazione di Cindy Cardillo e di Laura Giordani, che nel corso della pièce hanno interpretato vari ruoli, e molto diversi fra loro, dando prova di una grande versatilità e sensibilità scenica. Perfetto il figlio di re di Antonio Starrantino, giovane attore dall'efficace mimica, dotato di una spontanea vis comica capace di piegarsi validamente anche alle esigenze del grottesco. Bravo anche Giovanni Strano, che nei vari ruoli affidatigli ha evidenziato una buona professionalità, pur se ancora acerba. Bravissimo, sia per presenza scenica che per uso della voce, Pippo Tomaselli, anche lui interprete di più ruoli; attore maturo ed esperto, ha trascorso senza cedimenti ed esitazioni tutti i registri richiesti, soccorso da una padronanza mimica stupefacente in grado di rendere parlanti anche i silenzi.
Amelia Martelli è stata Vanna Scoma, la mavara che dialoga con le fimmine di notte che hanno rubato il bambino: ha reso una maga inquietante, tirannica e succube al tempo stesso di una potenza di più forte di lei. Scultorea nel gesto, perfetta nel controllo della voce, senza mai una forzatura, è riuscita a rendere quel che forse Pirandello chiedeva a questo personaggio, un contrasto netto e atroce, quasi quello di una chera greca, con l'umanità tenera e dolente della Madre, che Francesca Ferro ha delineato con lieve dolcezza, con un dolore accorato ma rattenuto, il dolore di chi è costretto a subire un fato che annienta la sua umanità. Triste, quasi ravvolta in un lutto ancestrale, ha tratteggiato con maestria rara, senza mai scadere nel sentimentale, una figura commovente di madre annichilita dalla sciagura ma che spera, spera sempre nelle ragioni del cuore, così come la Comtessa , l'altro suo ruolo, spera sempre, pur se attonita e scorata, in quelle dell'Arte.
Giuliana Cutore
19/3/2014
Le foto del servizio sono di Serena Marino.
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