Barcellona
Concerto di Flórez al Palau de la Música
Il ciclo Grandi voci prosegue con un concerto di Juan Diego Flórez accompagnato dall'Orchestra di Valencia, diretta da Riccardo Minasi. Il maestro sembrava avere molta fretta e prediligeva i forti, i fortissimi e ritmi estremamente cambianti oppure seguiva un metronomo senza differenze: la cosa migliore era la sinfonia dell'Alzira verdiana, ma i ballabili de L'assedio di Calais di Donizetti diventavano una tarantella sgradevole e non molto meglio si mettevano le cose per il ballabile La Primavera da I Vespri siciliani. Le due sinfonie di Mozart (La clemenza di Tito e Don Giovanni) soffrivano anche di questo tipo di approccio ma con risultati meno terrificanti. L'orchestra può migliorare nella sezione degli archi ma sicuramente è già parecchio brava se non le si chiedono cose impossibili. Il programma incominciava con l'aria del ritratto da Il flauto magico (buon tedesco, alquanto scolastico, e buona versione ma non memorabile) e con l'aria di sortita di Alessandro, ‘il re pastore', molto più interessante, naturalmente per le colorature perfette. Poi siamo tornati indietro con Gluck e il suo Orphée in francese nella versione per tenore. Le due arie erano cantate molto bene ma il risultato inferiore a quello ottenuto alla Scala, vuoi per la direzione (terribile nel lamento) vuoi anche perchè la voce suonava più opaca in centro e grave. Non si capisce perchè il simpatico tenore peruviano creda necessario dialogare con il pubblico, o non almeno per raccontargli la storia di Orfeo e perchè un'aria è allegra e l'altra no. Ma così s'inaugurava una dinamica che arrivava fino alla fine del concerto, conclusosi con una versione piuttosto circense di Granada di Lara, tanto da parte del tenore quanto del maestro, e che non spiegava niente quando si trattava di Massenet ma invece sì quando toccava il turno al duca di Mantova. Io direi non ci sarebbe mai bisogno, ma forse sbaglio. Anche la fine sventurata di Edgardo nella Lucia veniva raccontata, ma non si cantava Tu che a dio bensì il recitativo ed aria Tombe degli avi miei... Fra poco a me ricovero. Molto meglio che quando al Liceu Flórez interpretava il ruolo per la prima volta. Voce più scura, con più centro, ma non con più volume. E per certi ruoli bisogna cantarli parecchio e con l'orchestra in buca per sapere se non richiedono troppo. Lo stesso con Rigoletto e La Traviata: certo, Flórez canta bene, molto bene (con una cadenza alla fine di Parmi veder le lacrime senza cabaletta e una corona interminabile ma piuttosto rigida e d'intonazione non esatta per chiudere invece la scena di Alfredo – compresa O mio rimorso!) ma i recitativi dimostrano che ci vuole del fiato e le frasi finiscono presto e quasi inudibili, e quindi il migliore di tutti i pezzi era Questa o quella. Va detto lo stesso per l'opera francese: sia Manon che Werther richiedono colori e sfumature che il bel timbro di Flórez non ha e che lo costringe a risparmiarsi in un canto troppo ‘intimo' per arrivare con facilità all'acuto, e in qualche momento l'orchestra lo copriva.
Prima del grande finale ci sono stati due bellissimi momenti, i migliori della serata, con il tenorissimo seduto con la sua chitarra a interpretare una canzone della conterranea Chabuca Granda che cantava per la prima volta (‘bisogna osare' è venuto a dire), Coplas a Fray Martí, e la sua celebre versione di Cucurrucù, paloma di Veloso con bellissime mezzevoci prolungate quasi ad infinitum.
Il pubblico che riempiva l'auditorio si è mostrato dall'inizio entusiasta con punte di delirio verso la fine – bandiere peruviane, grida singole di ammirazione, una signora che quasi cade da un balcone mentre il tenore ci raccontava che lo segue dovunque, fiori...
Jorge Binaghi
19/4/2018
La foto del servizio è di Antonio Bofill.
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