Francesca da Rimini
alla Scala di Milano
La produzione lirica italiana è sterminata, tuttavia negli ultimi decenni quello che era considerato “repertorio” si molto ristretto e opere che un tempo erano regolarmente rappresentate oggi sono considerate rarità peculiari. È il caso di Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, ritornata alla Scala dopo ben sessant'anni, mentre in precedenza vantava una frequente proposta con ben nove edizioni a partire dal 1916. Il libretto è tratto dall'omonima tragedia, di notevole intensità drammatica, di Gabriele D'Annunziano, un testo caratterizzato dal dettaglio e di ostica praticità a essere musicato. L'efficace apporto di Tito Ricordi fu la soluzione del nodo, il quale operò uno “sfrondamento” del dramma per facilitarne la composizione e la riuscita drammaturgica, con l'assenso dell'autore. La prima ebbe luogo al Teatro Regio di Torino il 19 febbraio 1914 con un grandioso successo. Curioso rilevare che la maggior efficacia scenica del libretto rispetto all'originale tragedia produsse un seccato atteggiamento dello scrittore che vide messa in ombra la fama della sua creatura e pare non andò mai a una rappresentazione teatrale dell'opera di Zandonai. Nell'opera scompare la Firenze del ‘200 di D'Annunzio, permane un clima che riduce l'affresco storico a una miniatura erotica ed eroica fra amore e guerra. Generalmente si osserva una ricchezza timbrica che rileva gli snodi psicologici del dramma, tra stilizzazione di figure e persuasione di verità umana.
L'innovazione operata dal compositore è riservata al ruolo dell'orchestra, che ammanta il dramma di un'atmosfera truce e misteriosa, di una vera e propria tinta sinfonica. Possiamo definire Francesca da Rimini opera di atmosfere, di momenti e situazioni. Indicativo è il finale atto I. Come affermato da un recensore dell'epoca, Zandonai è un creatore di atmosfere, nel quadro di un'azione drammatica nella quale si fondono i personaggi, anche minori, in un segmento costruito con precisione. L'importanza storica di Francesca da Rimini è la caratterizzazione di una prospettiva nuova dell'opera italiana, senza rompere con il passato.
Lo spettacolo creato da David Pountney (regia), Leslie Travers (scenografo), Marie-Jeanne Lecca (costumista), Denni Sayers (coreografo) e Fabrice Kebour (luci) ha un forte impatto visivo ed è ben tracciato negli spazi e movimenti ma si discosta dal concetto di Zandonai essendo più affine al dramma originale. Lo spesso Pountney, nel programma di sala, precisa che “l'opera è strettamente legata al dramma che è evidenziato nel suo interesse per le donne e la guerra”. Seguendo tale concetto le donne sono identificate con una peculiarità sensuale che rimanda al tipico concetto dannunziano. Infatti, nell'idilliaco mondo femminile del primo atto, ove impera una scultura di donna, irrompe la brutalità maschile rappresentata da lance che escono dalla parte per segnare il violento matrimonio imposto alla protagonista. Segue un torrione medievale mastodontico, simbolo di guerra feroce. Nel III atto il biplano è l'omaggio che il regista porge a D'Annunzio per le sue imprese estreme. Molta simbologia, chiara ma talvolta fuorviante dal concetto drammaturgico, nel quale la figura di Francesca è sviluppata anche in donna “guerriera”, che combatte coraggiosamente per una pseudo libertà. Manca in sostanza una visione drammatica e passionale del dramma e soprattutto una visione chiara della protagonista, realizzata in una chiave di riferimenti più letterari. Anche gli altri personaggi seguono questa traccia, se le giovani ancelle sono elegiache e oniriche nel primo atto, si trasformano in soldatesse al terzo. Poco viscido il ruolo di Maltestino, non passionale Paolo, veemente e sadico Gianciotto. Nel complesso, pur restando uno spettacolo godibile e non fuorviante, assume la caratteristica di eccessivo simbolismo, ma si lascia vedere con piacere. In quest'ambiente bellissime le scene di Travers, imponenti, monumentali e ricercate nella fattezza, memorabili i costumi di Lecca, che trovano un equilibrio apprezzabile tra epoca dannunziana e medioevo. Di assoluto rilievo il disegno luci.
Sul podio Fabio Luisi, preziosa e raffinata bacchetta. Il maestro sa cogliere appieno il significato musicale dell'opera: passione ed espressione. La raffinatezza espressa nel curare i variegati colori e soprattutto il timbro orchestrale è a dir poco eccezionale. Inoltre la sua lettura coglie appieno lo spirito del compositore che sotto molti aspetti, anche se fu innovatore, l'opera ha una caratura sinfonica non secondaria, traccia con meticolosità tutti i riferimenti sia ad autori precedenti sia al gusto liberty del momento, e nei passi più veementi non ha mai sovrastato il canto ma retto con sapiente mestiere un suono forte ma contenuto e vibrante. Una grandissima prova di concertazione, cui va sommata una mirabile partecipazione dell'Orchestra del Teatro alla Scala.
Meno convincente il cast, a cominciare dalla protagonista Maria José Siri, la quale pur esibendosi in un canto preciso e ordinario manca nel temperamento, nell'esecuzione di piani (spesso afoni), nel fraseggio che era poco forbito e in qualche acuto non del tutto timbrato. Non più felice la prova di Marcelo Puente, Paolo, che non ha nessuna delle caratteristiche che il ruolo prevede, a eccezione di una bella presenza scenica. Tuttavia l'attore è impacciato e la voce, non proprio seducente, tecnicamente non è rifinita, poiché gli acuti sono sempre forzati, la zona centrale poco espressiva e sovente al limite dell'intonazione.
Più efficace il Giovanni lo Sciancato di Gabriele Viviani, che con garbo e classe interpreta il rude personaggio in un ottimo equilibrio tra nobile e vilan. Vocalmente rifinito nella zona centrale, ma leggermente difettoso nell'acuto, trova terreno più consono in un canto sempre morbido con rarefatto fraseggio e buon uso dei colori. Molto buona la prova di Luciano Ganci, Malatestino, il quale possiede una bella voce squillante, soprattutto in acuto, ed emerge per un'interpretazione davvero rappresentativa del perfido ruolo.
Nei ruoli minori in evidenza la Samaritana di Alisa Kolosova per l'accento morbido, Costantino Finucci un Ostasio robusto e preciso, e Matteo Desole un ser Toldo di ottima fattura. Idunnu Munch era una Smaragdi di buona voce scura, mentre Elia Fabbian era uno spassoso e puntuale Giullare. Le donne di Francesca erano singolarmente ottime, Sara Rossini (Biancofiore), Alessia Nadin (Adonella), Dian Haller (Altichiara), Valentina Boi (Garsenda), ma stranamente il canto d'assieme iniziale registrava molteplici sfasature. Hun Kim e Lasha Sesitashvili erano rispettivamente un balestriere-prigioniero e un torrigiano professionali. Meravigliosa la prova del coro, diretto da Bruno Casoni, in particolare nella battaglia del secondo atto.
Successo convinto al temine, con numerose chiamate al proscenio, e punte di ovazione, giustamente, per il maestro Luisi.
Lukas Franceschini
14/5/2018
Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano-Teatro alla Scala.
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