La Gazzetta di un oberato ventiquattrenne
Dell'ancora oggi poco conosciuta Gazzetta di Rossini (Napoli 1816), suo diciottesimo lavoro teatrale, una pagina è purtuttavia celeberrima: si tratta della stupenda ouverture, migrata alcuni mesi dopo nella Cenerentola (Roma 1817). Il ventiquattrenne pesarese, che divideva in quel periodo le sue fatiche tra Napoli e Roma, rimandò di vari mesi l'andata in scena al Teatro dei Fiorentini di quest'opera buffa in due atti su un libretto, più abborracciato che ispirato, di Giuseppe Palomba e Andrea Leone Tottola. La fonte l'aveva fornita Il matrimonio per concorso di Carlo Goldoni (1763), già da altri sfruttato come soggetto lirico. Non meno disinvoltamente di tanti suoi colleghi, Rossini attinse per far presto a lavori precedenti, tra cui Il turco in Italia (Milano 1814). Ma, autoimprestiti a parte, sarebbe ingeneroso sostenere, come ha fatto qualcuno, che l'opera venne composta con la mano sinistra. Tanto più che, con un allestimento e interpreti adeguati, questa Gazzetta risulta davvero godibile. È pur vero che, venendo subito dopo lo straordinario Barbiere di Siviglia (Roma 1816) e precedendo di poco la magica Cenerentola, il profilo della Gazzetta si presenta decisamente più modesto. Ma il genio di Gioachino rifulge anche nei lavori in apparenza di minore impegno. Così come non si smentisce l'abilità del giovane compositore nel condurre al dénouement la sua macchina teatrale. (Giovane compositore, certo, ma, a quanto pare, nato vecchio, se maldestri iconografi continuano a proporcelo sempre e soltanto in sembianze di anziano!).
La vicenda ruota attorno al facoltoso negoziante napoletano Don Pomponio, vistoso quanto grossolano, che alloggia, con la figlia Lisetta da maritare e il servitore Tommasino, in un albergo parigino che ospita vacanzieri di varia provenienza. Tra questi un altro negoziante, Don Anselmo, padre di Doralice, ha a sua volta la preoccupazione di accasare la figlia. Pomponio, all'insaputa di Lisetta, che se la intende già con l'albergatore Filippo, ha fatto pubblicare un annuncio sulla "Gazzetta" per cercare uno sposo degno di Lisetta. Frattanto l'incontentabile giramondo Alberto ha trovato in Doralice l'ideale che disperava di incontrare. Trattandosi di un'opera buffa l'happy ending a tarallucci e vino è di prammatica, ma il cammino verso il duplice imeneo è disseminato di esilaranti peripezie in una girandola di equivoci, inganni, malintesi, travestimenti e finti duelli.
Ormai da alcuni decenni, pur tra l'avvicendarsi di vari sovrintendenti-direttori artistici, l'Opéra Royal de Wallonie propone con ammirevole cadenza i titoli meno noti di Rossini accanto a quelli più popolari. Quest'anno è venuto il turno della rara Gazzetta (non conservo purtroppo che un vago ricordo dell'edizione del Teatro Chiabrera di Savona, risalente al 1987, mia sola esperienza precedente). Ed è ancor più prelibata l'occasione di questa Gazzetta liegese (trasmessa anche dalla televisione), poiché costituisce la prima edizione moderna che ha ripristinato il Quintetto alla fine del primo atto, rimasto introvabile fino al suo fortuito rinvenimento nel 2012, guarda caso, nella Biblioteca del Conservatorio di Palermo.
L'attuale sovrintendente-direttore artistico Stefano Mazzonis è qui intervenuto con mano felice in veste di regista, quando, per tacere di altre sue messinscene recenti, è ancora vivo il ricordo del suo saporoso (e piccante al punto giusto) Equivoco stravagante rossiniano di due anni fa (recensito in questa rivista). La scena unica di Jean-Guy Lecat ricrea l'hall di un grande albergo con scale, pianerottoli e una coppia di ascensori a vista (questi ultimi si presteranno egregiamente nel secondo atto, al momento del duetto del litigio-riconciliazione dei due innamorati Lisetta e Filippo, su un ascensore per ciascuno). Cori e comparse e solisti, nei vivaci costumi contemporanei di Fernand Ruiz, animano l'azione sotto le luci vigili di Franco Marri, in un inarrestabile andirivieni multicolore, che il pubblico segue divertito, senza dovere interpretare i consueti enigmi registici che metterebbero a dura prova persino l'ingegno del principe Calaf.
Il direttore Jan Schultz e l'Orchestra dell'ORW hanno tutto sommato disimpegnato diligentemente i rispettivi compiti sin dalla smagliante ouverture, mentre il Coro della casa, affidato alla guida esperta di Marcel Seminara, ha offerto un'encomiabile prestazione.
Dopo averlo fatto nell'Equivoco stravagante già ricordato, Enrico Marabelli (Pomponio) rinverdisce fantasiosamente il ruolo del parvenu, senza far ricorso alle gigionate istrionesche care ad un suo noto collega più anziano. È sempre gradevole vederlo spuntare con quella geniale parrucca e ascoltarlo, nel suo napoletano approssimativo, secondato dal muto e stralunato servitore Tommasino (Lino Farrauto). Stilisticamente appropriato il tenore Edgardo Rocha (Alberto), che ricambia le cortesie fattegli da Rossini già nell'aria di sortita. Le due donne principali, il soprano Cinzia Forte (Lisetta) e il mezzo soprano Julie Bailly (Doralice) si sono fatte valere, la prima mettendo in luce virtuosità vocale e versatilità scenica, la seconda facendo di necessità virtù in un ruolo ridotto da qualche taglio improvvido. Ma era ben più sacrificata l'estrosa Madama La Rose del mezzo soprano Monica Minarelli, privata della sua aria di sorbetto. Sul versante maschile il baritono Laurent Kubla ha difeso con onore anche scenicamente l'impervio personaggio di Filippo. Il cast comprendeva inoltre i due bassi Roger Joakim e Jacques Calatayud efficaci interpreti dei rispettivi ruoli di Monsieur Traversen e Anselmo. E i due finali d'atto risultarono indiavolati ad libitum per la gioia del pubblico e la gloria di Gioachino.
Fulvio Stefano Lo Presti
17/7/2014
Le foto del servizio sono di Jacques Croisier.
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