Morire… perché?
Un ragazzo viene fermato una sera da una pattuglia di polizia: è a bordo di un'auto, si agita all'improvviso, forse oppone una resistenza magari solo verbale, viene costretto a uscire dalla vettura… e poi? Le forze dell'ordine si convincono di trovarsi di fronte a un ubriaco, o forse a un tossico, temono non si sa che cosa… Il finale è tragico: viene chiamata un'ambulanza, il giovane è a terra, privo di sensi, e muore poco dopo, non si sa bene se durante il trasporto o appena arrivato al nosocomio.
È questa la vicenda che Quattro uomini chiusi in una stanza, un intenso atto unico di Mario Gelardi, collaboratore di Roberto Saviano per la versione teatrale di Gomorra, in scena al Piccolo Teatro di Catania il 15 e il 16 febbraio, continuano a ripercorrere, a smontare e a rimontare, nelle more del procedimento giudiziario intentato nei loro confronti dalla famiglia del ragazzo morto: un andare e venire verbale lungo il breve intervallo di tempo che ha stroncato una vita, un andirivieni alla ricerca di una versione comune, che regga in tribunale, che comunque li scagioni, e forse che tranquillizzi le loro coscienze. Si autoconvincono di essersi trovati dinanzi a un tossico, di essere stati aggrediti, si ripetono fino all'ossessione di non essere medici, e dunque di non essere stati in grado di fronteggiare e comprendere la situazione, e rabbia, paura, pregiudizi e forse anche rimorsi si alternano nelle loro battute frante, ora rassicuranti, ora terrorizzate, rancorose sempre contro il poveraccio in cui si sono imbattuti.
Ma un dato di fatto emerge sopra tutti dalla vicenda della pièce: quel che è accaduto è successo perché le forze dell'ordine non sempre hanno coscienza del confine sul quale deve arrestarsi il loro lavoro, perché confondono spesso la contenzione del crimine (o di ciò che è solo presunto tale) con quello che è il compito del magistrato inquirente, accertare la verità, e comunque non con metodi indegni di una società civile. Troppo spesso, talvolta anche per paura, chi dovrebbe essere preposto innanzitutto alla tutela del cittadino dimentica che chiunque è innocente fino a prova contraria, e che nulla autorizza alle percosse, alla violenza, ad atteggiamenti e comportamenti lesivi della integrità fisica e della dignità morale del sospettato, e che anche quando il sospettato viene riconosciuto come criminale ha diritto a un trattamento civile, perché lo Stato non si occupa di vendette ma solo di punizioni adeguate al delitto commesso, e di punizioni comunque volte al recupero del delinquente, non al suo annientamento fisico e psichico.
Su queste sempre scottanti tematiche si aggira per circa un'ora il copione scritto da Gelardi, che ne ha curato anche la regia, coadiuvato dai costumi di Alessandra Gaudioso e dalle taglienti luci di Alessandro Messina: una regia scarna, essenziale, con gli attori che si muovono come in una gabbia simboleggiata da una lunga tela bianca, ora immobili nelle plastiche pose che mimano quel che è realmente successo dopo il fermo del ragazzo, ora aggressivi come belve affamate, ora paurosi e raggelati nel terrore del tribunale, quasi mai pentiti sinceramente delle loro azioni ma sempre intenti a cercare la menzogna più credibile, a rammentare sequenze inventate, a maledire la vittima e i genitori di questa che li hanno trascinati in tribunale. Alla fine l'assoluzione e il sollievo di poter tornare alla vita, senza più pensare a colui al quale la vita è stata tolta, e che prende per pochi agghiaccianti istanti la parola, nel buio della scena: una voce giovane, colma di rimpianti, di un giovane che voleva andare all'università, sposarsi, che amava la musica, e che si era agitato solo perché guidava senza patente, e che non era ubriaco e non aveva mai assunto droghe in vita sua…
I quattro giovani attori, Ivan Castiglione, Riccardo Ciccarelli, Carlo Geltrude, Gennaro Maresca, si sono disimpegnati in maniera egregia nel loro difficile e ingrato ruolo collettivo, usando una dizione volutamente sporca e meridionale, ma sempre misurata, senza indulgere all'antipatia di fondo che dovevano dettare i loro personaggi, ma lasciando che emergesse dalla gestualità e dalla mimica tutte le contraddizioni di un corpo dello Stato talvolta abbandonato al proprio destino, talvolta selezionato in maniera non proprio adeguata e rigorosa, ma fatto comunque di uomini con i loro difetti, preda di paura come gli sconosciuti che si trovano davanti, ma non per questo giustificabili quando travalicano i loro compiti ergendosi a giustizieri improvvisati.
Giuliana Cutore
17/2/2020
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