RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Rarità e qualità

La Wally al Filarmonico di Verona

Titolo ingiustamente negletto, La Wally di Catalani mancava al Teatro Filarmonico di Verona da circa un secolo. Nella sua storia moderna, quindi, dalla sua riapertura nel 1975, non era mai stata rappresentata. Occasione perciò doppiamente ghiotta, sia per la piazza veronese, che domenica 16 febbraio 2025 (di cui si riferisce) ha messo in scena la prima delle quattro recite previste, sia per il pubblico in caccia di rarità, che ha potuto così scoprire o riscoprire l'ultima opera di Alfredo Catalani, dal romanzo Die Geier-Wally di Wilhelmine von Hiller, andata in scena per la prima volta alla Scala il 20 gennaio 1892, e il secondo cimento librettistico di Luigi Illica, o meglio il primo quale librettista autonomo, dopo aver scritto a quattro mani con Felice Pozza Il vassallo di Szigeth per Antonio Smareglia (1886; l'opera venne poi data nel 1889). E ad orecchiare i commenti in sala, tra una signora chiamata Wally da un padre melomane (d'altro canto Toscanini, che contribuì non poco al successo del titolo, chiamò due dei suoi quattro figli Walter e Wally…) e uno scambio di memorie e articoli fotocopiati sulle esecuzioni scaligere degli anni Cinquanta e Sessanta con Tebaldi e Del Monaco, si è colta una palpabile soddisfazione.

L'allestimento è lo stesso che ha debuttato al Municipale di Piacenza nel 2017, a firma di Nicola Berloffa, e si distingue per la fedeltà al dettato librettistico grazie alle scene di Fabio Cherstich. All'alzarsi del sipario, dense nubi bianche, di quelle che effettivamente si vedono in altura, si dissolvono lasciando libero il piazzale dove Gellner mira con la carabina a un bersaglio di legno a forma di orso e lo centra (come da libretto), e in secondo piano «l'abisso profondo dove scorre l'Ache», delimitato da passerelle oblique. Sullo sfondo, il profilo frastagliato di cime innevate, bianche d'un bianco di neve ghiacciata, che solo a vederlo ispira freddo. Una scena perfetta per essere impiegata anche nel terzo e quarto atto con opportune modifiche. Nel terzo si ha cura di suddividere la scena in due: «sul davanti l'interno della camera da letto della Wally» – divano rosso, comodino, abat-jour e pareti verdi, invero forse po' troppo spoglia e moderna –, sul retro il crepaccio dove Gellner, dopo aver rovesciato la lampada, si accuccia e tende l'imboscata a Hagenbach. Nel quarto, la camera da letto lascia il posto a un nudo crocifisso nero, molto realistico per chi abbia dimestichezza coi sentieri di montagna. Tutt'attorno, il bianco opaco della neve sotto un cielo plumbeo. A contraltare di tanto gelo si contrappone il secondo atto, l'unico in cui si ha un deliberato allontanamento dal libretto, con l'azione proiettata direttamente dentro l'Osteria dell'Aquila anziché sulla piazza antistante; ma gli interni particolarmente curati di una baita in legno, con tanto di quadro a tema paesaggistico, palco di corna e testa di cervo impagliata alle pareti, con sedie, tavoli e sgabelli in legno grezzo, trovano i giusti accostamenti cromatici per sprigionare il calore che effettivamente accoglie chi entra d'inverno in uno di questi chalet. Le luci di Valerio Tiberi lo immergono nel buio di una notte fredda, non molto coerente con lo scampanio e l'organo che richiamano alla Messa, ma molto d'effetto, così come d'effetto sono le nevicate di primo e quarto atto, fin troppo discrete. Il tocco luministico incide poi in maniera determinante nel terzo e nel quarto, con la camera da letto che scompare nell'oscurità e i lividi lucori delle Dolomiti nel pallore d'una notte illune. Meritano menzione anche i costumi di Valeria Donata Bettella, che spargono maglioni di lana, stivali da neve, loden e Lederhosen a profusione e che differenziano con fantasia e coerenza gli elementi del coro. Notevole la tenuta in verde di Stromminger e la gonna nera a fiori di Afra, più anonimi i costumi di Hagenbach e Gellner, infagottati per il freddo, e di Wally, che alterna un abito color vinaccia a uno rosso scarlatto.

Funzionale e d'impatto, lo spettacolo sa come sorprendere, e ovvia alle difficoltà di scene di problematica rappresentazione, come quella del ripescaggio di Hagenbach dal crepaccio – resa con Wally che si cinge i fianchi di una corda e si cala in mezzo alle suddette passerelle – o del suicidio di Wally, grazie a… un buon materasso sul fondo: può così aver luogo anche la sua caduta nel dirupo, antesignana quella di Tosca; spiace però constatare che entrambe le scene, non si sa se per disposizioni registiche o recitazione innaturale, mancano di spontaneità e concitazione, soprattutto quella del salvataggio di Hagenbach, che avviene con tempi davvero irreali. O meglio: i tempi sono dettati dalla musica, e quella ha la sua durata; ma il palcoscenico non riflette quel grado di drammaticità che una tale situazione implicherebbe.

Del pari non si registra, non sempre ma in diversi punti, un'adeguata drammaticità nella direzione per quanto riguarda le parti vocali, benché in diversi passaggi essa desti ammirazione per l'attenzione alle sfumature, agli effetti e al colore orchestrali, importantissimi in un autore come Catalani, che gravita nell'orbita dell'estetica wagneriana nell'uso dell'orchestra e assimila in apprendistato il gusto coloristico di derivazione francese. Ed è proprio nei momenti in cui l'orchestra è protagonista – l'ottima Orchestra della Fondazione Arena di Verona – che emergono le qualità direttoriali di Antonio Pirolli: i Preludi agli atti terzo e quarto sono riuscitissimi quanto a trasparenza di linee e forza comunicativa, coadiuvata da un'ottima sezione di archi, qui morbidi e carezzevoli ma che in altri contesti, coi loro tremoli tesissimi, efficaci veicoli di tensione narrativa, e da tromboni gonfi e scuri, che riflettono la minaccia della valanga; in certi punti i corni, poi, hanno già la sonorità dell'Alpensinfonie di Strauss. Dove perde di mordente, si diceva, è nelle arie e nei duetti, che paiono abbassare la temperatura emotiva di diverse scene. Si segnala infine una concertazione dove talvolta il volume orchestrale sovrasta quello dei solisti. Nell'insieme, quindi, una direzione più sinfonica che operistica, ma in generale di buon livello come il cast.

Fin dalla sua entrata in scena, il primo pensiero su Eunhee Maggio è che sia nata per fare Turandot. Non a caso infatti l'ha interpretata a Firenze nel 2024, sotto la direzione di Zubin Mehta. Il rôle titre di questa produzione le si adatta bene grazie a una lama di voce che mette in luce i lati più graffianti del personaggio, ma che quando vuole sa farsi avvolgente e dotata a suo modo di un certo calore. Tutta la sua esibizione non deborda mai nelle corde dello strappacore; conserva anzi un equilibrio di fondo attorno a cui ruota quello della direzione e degli altri interpreti – è forse a questo equilibrio, a questa compostezza che si deve quel limitato trasporto di cui sopra: che a conti fatti non è merito o demerito, ma scelta stilistica. Il suo Ebben, ne andrò lontana, tanto per riassumere sul momento più noto e felice dell'opera, suona come una meditazione solitaria e mesta, come in effetti è, dato che la canta da sola e dopo essere stata, parola di Illica, «pensierosa». Quindi non effetti speciali, non gigioneggiamenti, ma solidità ed espressività.

Caratteristiche, queste, che la accomunano all'ottimo Gellner di Youngjun Park. In possesso di strumento voluminoso, ben timbrato, caldo e rotondo, conquista con uno scavo del vocabolo che dimostra intenzione, studio e approfondimento della sfaccettata psicologia del personaggio. Disimpegna bene la sua parte anche Carlo Ventre nei panni di Hagenbach. L'impronta scura, baritonale, della sua voce prevale fintantoché l'opera non entra nel vivo. Poi ha modo di sfoderare peso specifico notevole, gran volume, adatti al ruolo, ed efficacissima proiezione di suono, ben articolato sulla parola, in un crescendo di coinvolgimento che tocca i suoi vertici in «Io t'amo, Wally!» e in «Ma il bacio che ti presi era bacio d'amor».

Non da meno sono gli altri. Stromminger trova in Gabriele Sagona un artista in grado di interpretarlo credibilmente, rivestendolo di un timbro che più che di basso sa di baritono, con facilità di emissione in acuto e buon metallo denso. Eleonora Bellocci dà corpo e voce a un piacevole Walter, partecipe sulla scena e con un velluto vocale che gli fa legare fluidamente le agilità della “canzone dell'edelweiss”, come pure gli fa sostenere con appropriatezza il resto del parte. Afra si fregia della duttile e argentina vocalità di Marianna Mappa, mentre il Pedone gode del cavernoso timbro di Romano Dal Zovo.

A completare il cast sovviene il Coro della Fondazione Arena di Verona, istruito da Roberto Gabbiani, sostanzialmente corretto, con qualche punta di disomogeneità nel settore maschile (secondo atto). Ciò non gli impedisce tuttavia di essere applaudito da un Filarmonico non al massimo della sua capienza, che rivolge i battimani più entusiasti a direttore e interpreti principali.

Christian Speranza

19/2/2025

Le foto del servizio sono di EnneviFoto.