RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

In musica si deve osare

“Viviamo in un momento storico in cui abbiamo la libertà di fare musicalmente ciò che vogliamo, disponiamo di un patrimonio musicale fantastico, libero da scorie e da pregiudizi. Non esiste più “il tabù del do maggiore” che perseguitò noi della generazione post-Darmstadt. Allora si viveva una sorta di “zdanovismo” al contrario: se il burocrate dell'era sovietica tartassava Prokof'ev per eccessiva “modernità”, a noi accadeva esattamente il contrario. Quando la scrittura musicale non rispettava certi stilemi “moderni” si veniva messi al bando, accadde persino a personalità autorevolissime come Rota o Scelsi. Oggi puoi scrivere ciò che vuoi usando i mezzi che vuoi, dall'elettronica al flauto dolce e viceversa, mai abbiamo avuto tante opportunità! Chi parla male del Novecento è un pazzo, mai un secolo è stato tanto bello, abbiamo un'infinità di mezzi ma non sappiamo gestire la libertà che abbiamo. Vero è che la musica non può essere considerata una vasca da bagno in cui mettere ciò che si vuole, ammesso che qualcuno alla vasca da bagno non preferisca altri tipi di abluzione”.

A Catania c'è un vulcano sotto il Vulcano. È Gianluigi Gelmetti che, sul podio del Teatro Massimo Bellini, ne inaugura la stagione sinfonica con “Il Titano” ovvero la I Sinfonia di Mahler che, dice il maestro, è di tutte la meno complessa per gli esecutori e la più fruibile per l'ascoltatore benché sia già densa di stilemi che condurranno allo strepito della IX Sinfonia, “segni” di cui, più tardi, farà tesoro Varèse, compositore non così frequentato (bene fece il Festival di Salisburgo a dedicargli una sezione monografica, qualche anno fa) e molto caro a Mahler.

Gelmetti, dunque. Non è tanto per la quantità e la qualità delle cose che anima e che lo animano – è direttore d'orchestra, compositore, chitarrista, pedagogo musicale, regista, direttore musicale ed artistico – quanto per il lucido “Sturm und Drang” con cui le porta avanti da sempre. Tutte.

- Più che “Ho scritto t'amo sulla sabbia” qualcuno scrisse “Mozart, ti amo” su un muro di Piazza del Popolo, a Roma. Era “per colpa” sua, maestro Gelmetti?

“Ebbene sì. I nostri “Flauto magico” e “Don Giovanni” colpirono nel segno superando, in partecipazione di pubblico, le cifre altissime dei concerti di musica pop perché basta veicolare in modo diverso la musica che erroneamente si continua ad etichettare come “classica”, basta pensarla per uno spazio preciso come in quel caso in cui amplificazione perfetta e maxischermi appropriati rendevano giustizia all'opera e all'operazione. In musica si deve osare, non per provocare ma per fare con coraggio ciò che si ritiene giusto senza paura del consenso, un compromesso con cui dobbiamo convivere. Di coraggio d'osare non difettava certo Mahler: è scritto talmente difficile che difficile diventa affondarlo, basta seguire le sue indicazioni. È lui stesso ad avere la capacità di far crescere la sua musica nella direzione che vuole, Mahler sa come toccare il lato migliore dell'uditorio e dello stesso direttore d'orchestra. Ogni volta che dirigo la IX sto malissimo, dico sempre che è l'ultima…”.

- Il direttore d'orchestra è come Atlante? Combatte “insieme” con i suoi come il termine “concertare” suggerirebbe?

“È il mestiere più solitario del mondo, sei solo davanti a te stesso con una massa di gente da “coagulare” nel medesimo sforzo. Dirigere un'orchestra è pontificare cioè creare un ponte su cui condurre la gente in un'altra dimensione. E l'orchestra non è una cosa strana ma è fatta dal sudore, dalle mani, dal dolore della gente. Guai al direttore che non “suona” con l'orchestra, se si estranea e parla solo con Dio, è fuori strada. Il direttore deve tenere per mano tutti i musicisti. Una volta lessi di un maestro che diceva: io non dirigo l'orchestra, dirigo la musica. È come dire: non faccio l'amore con una donna ma con l'amore, è onanismo intellettuale! Il vero direttore è colui che suona con i musicisti, che sa con chi ha a che fare dopo la prima prova, che capisce non solo le difficoltà di uno strumento ma anche le persone che vi stanno dietro. L'orchestra non è una massa condotta da un demiurgo, ognuno deve suonare sapendo d'essere leader della sua sezione”.

- Se poi il direttore d'orchestra è anche regista, può essere garanzia di fedeltà alla drammaturgia musicale “contro” certa bislacca scuola tedesca?

“Ho firmato molte regie ma non per porre barriere all'arroganza di certi allestimenti, piuttosto per dare maggiore unità ad una forma d'arte che è musicale ma anche teatrale, non dimentichiamolo. E poi sfatiamo la guerra di religione tra tradizione e modernità, se non si scambia la tradizione per cattive abitudini, la regia diventa modernissima. Non sopporto, invece, le “chiavi di lettura”: non hai il diritto di sovrapporti alla musica per dire ciò che interessa a te, la musica non può essere un sottofondo perché il regista inventi soluzioni avulse dal resto. “Carmen” in epoca franchista? Che noia. O quell'Aida a Francoforte con personaggi vestiti da Tarzan! Spesso si tratta di soluzioni arroganti, meglio una regia ragionata nel rispetto dei canoni teatrali. Intendiamoci, non amo neanche certe regie amorfe, a quel punto tanto vale eseguire l'opera in forma di concerto”.

- Fermo restando che la prima drammaturgia è in partitura ed è la partitura tout court.

“Sì ma anche ciò che accade in scena influenza la musica. In una Tosca di 35 anni fa qualcuno dei critici mi rimproverò una fucilazione di Cavaradossi troppo lenta. Era vero ma era pensata in funzione di quei sicari di un assassinio politico in odore di Goya, non certo di un'esecuzione. Ed io trovavo stupendo questo tempo lento con ombre nere che si avvicinavano”.

- Qual è la cosa che dice più spesso, in “buca”?

“Che si suoni in orchestra come si suona in un quartetto. Benché i compositori specifichino sempre più spesso le dinamiche individuali, tutti devono ascoltare tutti. L'orchestra è una grande piramide che parte dal direttore ma tutti sono fondamentali”.

- Molta croce e poca delizia: la voragine che la musica contemporanea ha scavato tra sé e il pubblico è irreversibile?

“L'allontamento è avvenuto man mano che i linguaggi diventavano tecnicamente più complessi. Guardiamo al jazz, l'evoluzione in termini di sintassi musicale e di prassi esecutiva ha prodotto una presa di distanza da parte dell'uditorio. Ma la musica è prima di tutto immediatezza e poi conoscenza per capire di più. Nella musica contemporanea, tra l'altro, c'è stato compiacimento nell'essere incompresi, è un successo l'insuccesso e avere poco pubblico. Si è sempre sul crinale dell'autoghetto. Ricordo ancora, negli anni '70, il povero Luigi Nono che andava in sahariana nelle fabbriche a proporre “La fabbrica illuminata” mentre (sia chiaro, sono ben lungi da critiche malevole) quelli magari volevano Ciaikovskij. All'epoca la musica era presa di coscienza, guai a parlare di musica di evasione. Abbiamo vissuto un periodo di grandi conflitti e grandi incomprensioni ed oggi non riesco a vedere un'ars nova generata da un cambio in leggerezza, una “contaminazione” che forse non è una bella parola. Ma, attenzione, c'è anche una pigrizia nell'ascolto: in un mondo di “guardoni”, dal sesso allo sport che, invece di seguire dal vivo, ci guardiamo in televisione, sguazziamo in una passività totale sicché se i linguaggi si fanno più pretenziosi, si abbandona il campo”.

- Le urgenze di un teatro d'opera?

“Una dirigenza compatta e coesa che lavori ad un'idea comune ma con competenze specifiche. Un teatro è un complesso di responsabilità condivise. Ma, senza offendere nessun sovrintendente, non è a lui che si affida la formazione delle compagnie di canto, è come diventare tutti commissari tecnici della Nazionale di calcio solo perché ci guardiamo le partite la domenica. Per scegliere i cantanti non basta un musicista di chiara fama ma occorre una personalità completa che abbia anche e soprattutto esperienze di canto, non si può lasciar mano libera alle agenzie. Quanti sovrintendenti ho visto mettersi a comporre compagnie di canto, ma in assoluta buona fede, eh! Accade talvolta che, se si è animati da amore per le cose, ci si convince di poterle fare. A parte tutto, però, varrebbe la pena porsi una domanda”.

- Cioè?

“A che cosa servono i teatri. In momenti economicamente infelici per l'arte – mi scusi se non dico subito cultura ma esiste anche l'arte e la cultura è una scatola che va riempita – c'è il rischio che il teatro e lo spettacolo siano considerati un plusvalore. Sì, la fame dello stomaco è fondamentale ma c'è anche la fame dello spirito e della mente, di quella benedetta evasione che una volta era bandita ma a cui l'uomo ha diritto. Di sana, benedetta evasione abbiamo bisogno. E se un teatro è amministrato solo da soldi, il teatro amministra opinioni. Ho sentito direttori e sovrintendenti dire: “Finché io sarò in questo teatro, Mascagni non entrerà mai!”. Solo un imbecille può dirlo. A parte che Mascagni è stato un grandissimo ma se anche tu non lo ami, hai comunque il dovere di proporlo perché non sei un mecenate ma amministri la cosa pubblica”.

- È stata la sua linea di condotta negli anni in cui ha guidato il Teatro dell'Opera di Roma?

“Avevo un team in cui ci si rispettava parecchio. L'intesa era che ogni anno ci dovesse essere un Mozart, un Rossini, un belcantista che poteva essere Bellini o Donizetti, un Verdi, un Wagner. Un verista come Mascagni e un Puccini. E poi titoli nuovi, da Strauss ad un contemporaneo. I titoli della nostra storia restano fondamentali perché la gente deve venire a teatro e sentirsi felice. Bisogna avere il coraggio di farlo e per farlo bene bisogna intendersene. Un teatro deve essere popolare nel senso più nobile della parola, deve essere fatto d'amore e di gioia. E deve essere pieno, con tante recite e gente che fa la coda al botteghino. Il “tutto esaurito” non copre certo le spese, è bene avere coscienza delle figure da cui dipendiamo, di chi ci finanzia. Non voglio fare populismo d'accatto ma in teatro devono esserci tutti perché il teatro è di tutti. La sala vuota è segno di disamore, interroghiamoci sul perché la gente non viene”.

- Giusto per giocare con il sottotitolo della I Sinfonia o “poema in forma di sinfonia” di Mahler, c'è un'impresa titanica a cui sta pensando?

“Non in termini di grandiosità e sfarzo, non m'interessa andare a dirigere in un luogo che giudicano grandioso o che nessuno conosce. Mi piacerebbe molto, invece, costruire un'orchestra ex novo con principi nuovi senza che ciò significhi disconoscere le orchestre che ci sono già, per carità! Penso ad un'utopia in cui affrancarsi dalla fase padronale delle orchestre di tanti anni fa e da quella sindacale di poi. Sarebbe bello lavorare come ai tempi in cui si costruiva una cattedrale gotica: dal grande architetto a coloro che facevano i lavori meno “importanti”, avevano tutti coscienza di ciò che si faceva. A ben pensarci, lo stesso principio dovrebbe guidare il mondo, dentro e fuori dalla musica”.

- C'è qualcosa che conta più della musica? C'è dell'altro?

“Non amo le graduatorie, m'interessa tutto, pittura, scultura, letteratura persino le cose mai fatte. Solo che tutte, alla fine, confluiscono in questo linguaggio in cui so esprimermi meglio. Sembra una frase da cioccolatini ma la musica comincia dove finiscono le parole, il che non significa che dobbiamo abolirle ma conoscerle talmente bene da sublimarle. La musica è il mio modo di arrivare al trascendente, di pregare Dio o lo chiami come vuole. Non è la cosa più importante ma il modo in cui so esprimere meglio le cose più importanti”.

Carmelita Celi

28/10/2016