RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

I tre ritorni di Andrea Chénier

Di ritorno vero e proprio si può parlare per l'Andrea Chénier alla Scala. Anzi, di ritorni. Il primo è quello storico. Lo Chénier di Umberto Giordano, infatti, su libretto di Luigi Illica, fu dato in prima assoluta proprio alla Scala il 28 marzo 1896: il teatro che ha visto nascere il titolo più fortunato del compositore foggiano, nel maggio del 2023 lo fa rinascere sotto l'attenta bacchetta di Marco Armiliato; il secondo riguarda la regia: si tratta dello stesso allestimento di Mario Martone, qui ripreso da Federica Stefani, con cui era stato portato in scena nel 2017, dopo una latitanza di trentadue anni (mancava dal 1985). Last but not least, il terzo coinvolge Yusif Eyvazov, che aveva debuttato nel ruolo di Andrea proprio nella ripresa del 2017.

Con questa edizione l'opera vola oltre le centocinquanta recite complessive da quando vide la luce nella sala del Piermarini. Martone riproduce con alta fedeltà di particolari la Francia del Terrore, in linea coi desiderata di compositore e librettista: d'altro canto, il quarto lavoro teatrale di Giordano, con una così radicata e fondamentale presenza della Storia nella sua trama, non può essere scardinato dalle coordinate storico-politiche nelle quali è immerso (cioè, può, perché in senso assoluto si può tutto, ma cum grano salis …), pena una decontestualizzazione totale e assolutamente deleteria (basti pensare che, nella locandina dell'opera, Illica tiene a precisare che «attinse verità d'epoca l'Autore del Libretto»: l'episodio della vecchia Madelon, per esempio, è tratto dall'imprescindibile Storia della Rivoluzione Francese di Jules Michelet). Nella concezione di Illica-Giordano, che la regia sposa alla perfezione, la Rivoluzione fa da sfondo, sostanzialmente, a una storia d'amore infelice, troncata proprio dalla macchina storica, quella che Martone chiama una «“macchina celibe”, capace di produrre solo illusioni di magnifiche sorti e progressive». Le stupende e realistiche scenografie di Margherita Palli, così, diventano cornice appropriata ma non invadente, montate su una piattaforma girevole al centro del palcoscenico, «una struttura rotante come un carillon, che consent[iss]e in questo caso l'articolazione contemporanea dei diversi piani narrativi» (ancora Martone). Attorno alla piattaforma, le luci calano di colpo, immergendo le frange delle scenografie nel buio. Assumono così ancor più risalto il sofà azzurro, le statue di marmo, i lampadari di cristallo e le dorate cornici rococò del primo quadro attorno agli specchi: ma a ben vedere, colpo di genio, non sono tutti specchi: alcuni sono finestre sul mondo esterno che la nobiltà non vuol vedere, finestre da cui le «genti grame» si affacciano, apparendo e scomparendo alla tremula e fumosa luce di lanterne, come tele fiamminghe d'interni, visi segnati su corpi cenciosi, preludio all'irrompere di «sua grandezza la miseria» guidata da Gérard, che interrompe la gavotta ballata dagli invitati (su coreografia di Daniela Schiavone, che cura anche i movimenti del corpo di ballo del Teatro alla Scala, diretto da Manuel Legris, su O pastorelle, addio! ). Un giro di piattaforma ed eccoci proiettati nel quadro secondo, qualche anno, dopo nei pressi del ponte Peronnet a Parigi, spalti di marmo meno caratteristici degli specchi del primo, ma ugualmente funzionali allo svolgersi di quello che è il frangente più animato dell'opera. L'intelligenza di questa regia permette così di passare senza cambi scena, senza chiusure di sipario e senza intervalli dal primo al secondo quadro. Tra il secondo e il terzo l'intervallo invece c'è, e si rende necessario per incuriosire lo spettatore al ritorno dal caffè con quell'urna dorata al centro del proscenio e a sipario chiuso, attorno alla quale prima Mathieu, poi Gérard tengono il comizio per quella che oggi si definirebbe una vera e propria crowdfunding. All'apertura del sipario, ecco il giaciglio di Gérard sulla destra, semplice letto di ferro disfatto, e la scrivania a sinistra, dove, dopo il dialogo con l'Incredibile, stende l'atto d'accusa contro Chénier. Anche qui si assiste a una prezioseria: Gérard che, facendosi l'esame di coscienza, cantando Nemico della patria?!, si specchia: il personaggio più sfaccettato dell'opera che si esamina come guardandosi dentro: cioè allo specchio. Meno psicologico, ma ben fatto, un attacchino, con spazzola e secchiello di colla, affigge la cattura di Chénier e di Idia Legray sullo specchio, che si colora dei colori del manifesto. La piattaforma ruota ed ecco le tribune affollate di popolo, davanti alle quali Fouquier Tinville, al termine di un processo sommario, condanna a morte Chénier. L'ultimo giro di piattaforma traghetta dal terzo al quarto e ultimo quadro, il cortile delle prigioni di Saint Lazare, con una disposizione che, scientemente o meno, ricorda l'ultima scena dell'Aida: nella metà inferiore, un rettangolo d'ombra, con le inferriate delle celle sullo sfondo, accoglie lo svolgimento di quasi tutta l'azione; in quella superiore, per dirla con D'Annunzio, «l'alba separa dalla luce l'ombra»: un chiarore aurorale, che a fine scena imbianca tutto lo sfondo, contrasta con la forma scura della ghigliottina, alla quale la coppia di innamorati da un lato e il boia dall'altro si avvicinano al termine dell'opera, col boia che, tirando la corda, solleva la lama. Sipario.

I raffinati costumi di Ursula Patzak non si distanziano dall'impronta di Martone e integrano le scenografie di Palli: dalla casacca blu di Andrea ai pizzi bianchi di Maddalena prima e alla sua dimessa veste marrone poi, dalla livrea di Gérard al cappotto e feluca verde dell'Incredibile, alla gonna rossa “alla gitana” di Bersi, vagamente Preziosilla verdiana, è un tripudio di particolari che, più che costumi, fanno pensare a un'evocazione storica: berretti frigi dei rivoluzionari, grembiuli e sottogonne delle popolane, le divise bianche e blu dei gendarmi, tutto armonizzato cromaticamente con delizioso e lodevole senso estetico complessivo. Notevole anche il lavoro di Pasquale Mari, lightdesigner, che sottolinea con garbo i momenti salienti dell'opera, non solo nel già descritto quarto quadro, con quel chiarore che man mano invade la scena, ma, a ritroso, anche negli altri tre: la scena del processo, l'umbratile studio di Gérard, le complici oscurità del secondo quadro, l'oro sfolgorante dei rammentati specchi del primo.

Se il côté registico convince ampiamente per l'aderenza alle didascalie (il fatto che l'Abatino prenda il tè invece di affondare il cucchiaio nella marmellata, come prescritto nel libretto, è una quisquilia; di una crudezza forse fedele alla storia ma respingente a livello visivo, invece, sono le teste impalate come quelle dei pretendenti di Turandot) e la ricchezza di precisi dettagli, quello musicale non è da meno. Giordano stesso prescriveva ad Antonino Votto di dimezzare le dinamiche da lui scritte: ciò che è forte diventi mezzo forte, ciò che è mezzo forte diventi piano e così via: quando compose lo Chénier aveva ventotto anni, era giovane e col fuoco nelle vene – questa la sua giustificazione. Armiliato pare far sua questa lezione dosando i pesi sonori con perizia; non è la direzione di un Votto o di un De Sabata, intendiamoci, direttori storici della Scala che hanno avuto, oltre che il dono dell'interpretazione, la fortuna di conoscere Giordano di persona (tra Giordano e De Sabata c'era amicizia, non solo conoscenza); a volte Armiliato si fa prende la mano nel far salire la temperatura emotiva e nel dilatare i tempi; eppure, quando si rileva un'orchestra attenta ai bisogni dei cantanti, che non li sovrasta e che sa farsi in primo piano quando serve, quando si rileva un direttore in grado di non appesantire il tessuto sonoro e di dare la giusta rilevanza alle armonie moderniste di un compositore che si teneva al passo coi tempi (il suo editore Sonzogno lo riforniva continuamente di testi e partiture freschi d'inchiostro), non si vede che cosa ci sia da eccepire. Sorretti da un'orchestra di prim'ordine come quella della Scala, poi, in grado di passare da tre serate in compagnia dell'Ottava di Mahler, 18, 19 e 20 maggio, alle alterne esigenze di protagonismo e discrezione di un'opera, come nella recita in esame, del 21, questa competenza e questo informato artigianato direttoriale sanno convincere, pur senza entusiasmare.

Come ben disse una volta Giorgio Gualerzi, lo Chénier è l'opera dei comprimari. Accanto ai tre ruoli principali ruotano infatti una selva di personaggi minori che contribuiscono non poco a caratterizzare le scene. La scelta del comprimariato di questa produzione ricade su un cast di consistente spessore artistico, a cominciare dalla Bersi di Francesca Di Sauro, dal canto malioso e accattivante, che corre agilmente per la sala. È la volta poi di José Maria Lo Monaco, presenza di lusso per una Contessa di Coigny di tutto rispetto, voce calda e piena di armonici. Elena Zilio, nonostante l'età – classe 1941 –, dimostra una fibra inscalfibile nel ruolo di Madelon, ruolo che conosce e scandaglia nella sua interpretazione non solo canora, dispiegando voce limpida, solida e ferma, ma anche attoriale, inscenando pianti e tremor di braccia da autentica vegliarda. Anche Roucher, l'amico di Chénier, riceve un attento trattamento da parte di Rubén Amoretti, voce tornita e molto presente, anch'egli molto credibile sulla scena. Allievo dell'Accademia Teatro alla Scala, Sung-Hwan Damien Park disimpegna appropriatamente il romanziero Pietro Fléville. Ben fatto anche per Adolfo Corrado, calato nei panni di un più che temibile e tonante Fouquier-Tinville. Giulio Mastrototaro sa far pendere l'ago della bilancia dalla sua nel breve ma riuscitissimo ruolo del sanculotto Mathieu: voce volutamente un poco sgraziata, efficace per la parte, mimica da rude, cinico, disincantato e a suo modo simpatico buon diavolo, tratti che ricordano lo scudiero Jöns del Settimo Sigillo. Menzione a parte per l'Incredibile di Carlo Bosi, uno dei migliori tenori di carattere in circolazione, e giustamente, data la bella prova cui chi scrive ha assistito: timbro chiaro e leggero, dizione e fraseggio intellegibili, sguardi e atteggiamenti che rivelano il lato viscido e asservito del personaggio. La drammaturgia di Illica lo pone sulla scia dello Spoletta che nascerà per Puccini pochi anni dopo, e Bosi è allineato su questa falsariga. Autorevole l'Abate di Paolo Antonio Nevi, cui riesce di delineare il personaggio nel breve spazio delle sue poche battute, puntando sulla dignità e sul voler mantenere le distanze a tutti i costi. Altro allievo dell'Accademia Teatro alla Scala, Li Huanhong interpreta il doppio ruolo di Schmidt e del Maestro di Casa. Soprattutto il primo si avvantaggia di dizione scandita e inflessione che, da sola, trasmette tutta la spregiudicatezza del personaggio, in quel «Io non so nulla! Nulla!». Emidio Guidotti è infine un più che dignitoso Dumas.

Passando per l'ottimo e preparato Coro del Teatro alla Scala, istruito da Alberto Malazzi, cui si riconosce varietà interpretativa dagli ingessati aristocratici del primo quadro agli scarmigliati popolani del terzo, si giunga ai ruoli principali, iniziando proprio dall'Andrea Chénier del già menzionato Yusif Eyvazov. Il suo non è un Andrea eroico o “verista” sulla scia dei Del Monaco, Corelli o Pertile; tuttavia, pur non essendo baciato dal dono dello squillo, si fa forte dello stampo baritonale del suo timbro e di un'impostazione di tutto rispetto – sfodera un registro medio di salda tenuta e sale agilmente all'acuto, mantenendo dizione chiara e fraseggio morbido – per tratteggiare un Andrea passionale e lirico, a suo modo fascinoso, che conquista il pubblico sia nell'Improvviso, nei duetti con Maddalena al secondo e quarto quadro, nell'arringa durante la scena del processo, fino al conclusivo Come un bel dì di maggio, sia nella tenuta complessiva dell'opera, al termine della quale arriva un po' provato ma vittorioso. Nelle ultime due recite prenderà il suo posto Jonas Kaufmann. Anche Sonya Yoncheva, che si alterna a Chiara Isotton nel corso delle repliche, si difende egregiamente come Maddalena. Timbro cristallino, prismatico, lucente, sa però incupirsi nei passaggi gravi che rasentano il parlato; ammirevole il controllo del volume, dispiegato nei suoi vari gradi soprattutto ne La mamma morta, resa con pregnanza di accenti e di interpretazione, e ben calibrato nei duetti con Andrea e Gérard: le due coppie di voci funzionano, andando di pari passo senza prevaricazioni reciproche, merito anche di una buona concertazione da parte di Armiliato. Pregevole anche come viene evidenziata la differenza tra la “contessina” e la “cittadina/popolana” Maddalena, passando dal primo quadro ai successivi.

Chi davvero stupisce è il Gérard di Amartuvshin Enkhbat, in alternanza con Ambrogio Maestri e Luca Salsi. E stupisce per diversi aspetti. Quello vocale, innanzitutto: voce brunita, molto scura, cupa, per certi versi addirittura minacciosa: quel Compiacente a' colloqui è già tutto un programma, vi è stizza trattenuta a stento nell'arco di poche sillabe, e in Son sessant'anni, o vecchio preannuncia già lo sdegno per la il «mondo incipriato e vano» che di lì a poco lo farà diventare un capo rivoluzionario. Il suo Nemico della patria?! è un'autentica lezione di stile. Vi è tutto: immedesimazione nel personaggio, complice anche l'ottima gestione del palcoscenico e della gestualità, cesello della parola, che sapientemente si piega ai diversi registri espressivi del testo, dall'autocommiserazione di «No! È vile! È vile!» alla filantropia kantiana e universale di «Fare del mondo un Pantheon! / Gli uomini in dii mutare», fraseggio e dizione magistrali e nobiltà di intenti. Sì, perché il Gérard di Enkhbat mantiene una nobiltà di fondo nel suo personaggio, anche quando tende a somigliare al futuro Scarpia pucciniano desiderando carnalmente Maddalena: come non ravvisare in quel «Come sa amare!» l'analogo «Come tu m'odi!»? D'altro canto, tutta la scena è quasi un cartone preparatorio del duetto Tosca-Scarpia, e la matrice comune di chi le ha partorite è evidente: il villain di turno fa catturare l'amante della donna amata, in entrambi i casi un artista, e cerca di convincerla a tu per tu a starci; nel momento di climax la tensione è spezzata da un brano poetico/patetico, La mamma morta e Vissi d'arte; infine l'eroina si risolve a concedersi; ma, mentre Scarpia si appresta a riscuotere il pattuito, salvo essere ucciso da Tosca, Gérard desiste in nome di più alti ideali, ed è qui che l'interpretazione di Enkhbat trova la sua migliore spiegazione, coerente con le corde del suo personaggio. Non a caso raccoglie larghi consensi da parte di una Scala gremita, che tributa a lui, a tutto il cast e al direttore, festosi e prolungati applausi.

Christian Speranza

3/6/2023

Le foto del servizio sono di Brescia&Amisano.