Da Tolosa a Gerusalemme il primo Verdi francese
Per la terza volta ho avuto la fortuna di assistere alla preziosa Jérusalem di Verdi (Parigi 1847), inspiegabilmente sporadica, la quale è felice metamorfosi francese degli epici e straripanti Lombardi alla Prima Crociata (Milano 1843), predestinati nei propri lombi, oserei dire, a rinascere come grand opéra . Le precedenti occasioni mi erano state offerte a Leeds nel 1990 e a Genova dieci anni dopo. Riferisco su due delle cinque recite liegesi, la seconda di domenica 19 marzo e l'ultima di sabato 25 marzo. L'Opéra Royal de Wallonie ha riportato in Belgio Jérusalem , già data e ripresa a metà Ottocento per varie stagioni tra Bruxelles, Anversa, Gand e Liegi.
Sull'onda del clamoroso esito di Nabucco (Milano 1842), viene varato in meno di un anno, di nuovo alla Scala, un melodramma destinato a rispondere alle nuove attese del pubblico ed anzi con maggiore risonanza, con buona pace di quei critici che storcono il naso. I Lombardi – da un poema “tassiano” di Tommaso Grossi, amico intimo di Manzoni e meglio noto per il romanzo storico Marco Visconti, che a sua volta ispirerà l'omonimo fortunato melodramma di Errico Petrella (1854) – quando a Verdi più tardi l'Opéra di Parigi commissionerà un grand opéra che in quel momento non ha tempo di comporre ex novo, si presteranno egregiamente alla mutazione.
Riutilizzare un melodramma in parte o per intero in un nuovo contesto si era sempre praticato. Ma, se l'approdo parigino comportava sì un impegno da far tremar le vene e i polsi, Verdi poteva fare tesoro degli esempi illustri di Rossini e Donizetti e, alla stregua dei due grandi maestri, adattare credibilmente sotto il cielo francese un'opera nata in Italia. Del resto il libretto di Jérusalem viene affidato ad Alphonse Royer e Gustave Vaëz, gli stessi librettisti della Favorite di Donizetti (1840), ai quali tocca a loro volta il compito di convertire autonomamente in versi francesi una notevole parte del vibrante testo di Temistocle Solera e trasferire da Milano a Tolosa i crociati, non più lombardi, in partenza per la Terra Santa. «Jérusalem», constata Gustavo Marchesi, rivela «un libretto migliore dei Lombardi» mentre l'eco in Italia rinforza «l'opinione che il maestro Verdi procede sulla strada giusta».
Le esaltanti e irresistibili melodie dei Lombardi vengono adattate con magistrale perizia e più scaltra visione drammaturgica nella nuova partitura, con l'aggiunta di pagine nuove non meno robuste e vivide. Non è un'opera italiana travestita in abbigliamento francese né la rifinitura lascia a desiderare. Irrinunciabile in un grand opéra la presenza di un imponente e talvolta ingombrante balletto (quello che bastava da solo ad attirare tutta una categoria di spettatori). Il “novizio” Verdi ce ne ammannisce uno dai maliosi motivi, senza però preoccuparsi soverchiamente del colore locale (quasi tutti i profumi dell'Arabia latitano infatti), tanto la differenza la facevano le ballerine e i ballerini. È un po' la situazione del primo grand opéra donizettiano, Les Martyrs (Parigi 1840), riconversione di Poliuto proibito due anni prima a Napoli. Ma tanto Donizetti che Verdi potranno dettar legge più avanti, il primo con le sontuose danze di Dom Sébastien roi de Portugal (Parigi 1843), il secondo con uno degli esempi più riusciti nel genere, il balletto di Les Vêpres Siciliennes (Parigi 1855).
La scenografia di Jean-Guy Lecat è sobria senza essere scarna e delimita senza ingombrarlo lo spazio scenico. Archi e portici romanici a Tolosa, con possenti scuri pilastri rettangolari ai lati, che sovrapponendosi poi a diagonale formeranno la suggestiva caverna dell'eremita in Palestina, ogive e portici orientali a Ramla ed alla fine, dopo la proiezione su velario en silhouettes dello scontro tra crociati e mussulmani, il bianco profilo di Gerusalemme sul fondo. Appropriati gli eleganti costumi di Fernand Ruiz, non quelli dei ballerini che danzano a Ramla alla corte dell'Emiro, che sembrerebbero semmai più adatti a Siviglia nella Favorite (attesa a Liegi in autunno). Le luci di Franco Marri hanno suggestivamente sottolineato di volta in volta i vari momenti nei vari luoghi. L'allestimento è «ragionevole e classico» secondo il critico del quotidiano brussellese “Le Soir”, che probabilmente non intendeva essere complimentoso. Ma Stefano Mazzonis, evitando letture… “ostrogote”, si è preoccupato di rendere trasparente e credibile il mutevole evolvere dell'azione, ha guidato con perspicacia e fluidità di movimenti solisti, figuranti e coro, ed ha garantito la validità dello spettacolo. Un altro Verdi giovane, dopo il Nabucco dell'inizio della stagione, servito in maniera degna.
Ha diretto, per la prima volta all'ORW, la bionda e intrepida Speranza Scappucci. Alla vigile guida dell'attenta orchestra della casa, la direttrice romana (fresca quarantaquattrenne) mantiene agevolmente il controllo della buca e del palcoscenico, precisa e sensibile al dettato della partitura, di cui valorizza, accurata nei dettagli, le veemenze e le delicatezze, i fremiti, i furori e le ambasce, la protervia, la malinconia e il rimpianto. Grazie a lei il linguaggio verdiano scorre e avvince senza sosta. Il cast riunito, pur nella diversità geografica, si rivela omogeneo, già nella dizione francese chiara ed eloquente.
Elaine Alvarez, soprano statunitense di origini cubane, è un'impavida e suadente Hélène, che con voce potente e morbida, difende nonostante tutto fino alla fine l'amato Gaston, visconte di Béarn, ingiustamente accusato del delitto commesso da un altro. Gaston, che ha trovato nel tenore belga Marc Laho un'incarnazione ideale grazie al vigore ed all'eleganza dello strumento. Altro belga prestigioso si è dimostrato ancora una volta il baritono Ivan Thirion, che era il Conte di Tolosa padre di Hélène, sanguigno, prorompente eppur calibrato. Al terzo belga, il veterano e basso della casa Patrick Delcour, era affidato il ruolo del mellifluo Legato papale, reso con merito e finezza. Egregiamente ricoperti i ruoli secondari, anzitutto quelli di Isaure, dama di compagnia di Hélène, dal mezzo soprano Natacha Kowalski e di Raymond, scudiero di Gaston, dal tenore palermitano Pietro Picone. A questi vanno aggiunti i bassi Victor Cousu (un soldato), Benoît Delvaux (un araldo) e Alexei Gorbatchev (L'Emiro di Ramla) ed il tenore Xavier Petithan (un ufficiale). Resta da menzionare il vero protagonista, il “cattivo” Roger, fratello del Conte di Tolosa, che segretamente innamorato della nipote, tenta di far assassinare Gaston da un sicario, mentre per errore viene ferito il Conte, ma Roger riesce a farne incolpare Gaston. Quel fratricidio mancato però non gli darà più pace e fugge in Palestina a condurre sconosciuto una vita di severa penitenza e di preghiera. E qui lo ritroveranno gli altri, da cui si farà riconoscere solo prima di spirare, chiedendo perdono, dopo l'assalto per la conquista di Gerusalemme. Lo stesso Roger ha poco prima salvato in extremis Gaston. Ardua impresa sarebbe trovare oggi un altro Roger della taglia di Roberto Scandiuzzi. Oltretutto il cinquantanovenne basso trevisano si era già illustrato brillantemente nello stesso ruolo nella Jérusalem diretta da Fabio Luisi e incisa in CD da Philips (2000). Con un timbro ampio e bronzeo impressionante si trova più a suo agio negli stracci dell'eremita, che per un basso al suo livello costituisce un invito a nozze.
Il Coro dell'ORW diretto da Pierre Iodice si è fatto valere, versatile dall'inizio alla fine, in particolare nei due momenti ripresi dai Lombardi, uno dei quali ‘O mon Dieu! Ta parole est donc vaine' corrisponde a ‘O Signore, dal tetto natio', che nella prima sede voleva essere, come in effetti divenne, il contraltare di ‘Va, pensiero'.
La componente coreografica, pur quasi estranea nel contesto, ha dispiegato gli ammirevoli talenti di ballerini, ballerine e figuranti, intrecciati plasticamente, in bella alternanza di grazia e vigore, nei quattro air de ballet.
Dopo la conquista di Gerusalemme i crociati vincitori e i musulmani sconfitti si abbracciano. Il Teatro gremitissimo entrambe le sere ha generosamente applaudito.
Fulvio Stefano Lo Presti
8/4/2017
Le foto del servizio sono di Lorraine Wauters.
|