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Un Rigoletto quasi perfetto
Il trittico di opere verdiane conosciute come “trilogia popolare”, Rigoletto Il trovatore, La traviata, non nasce come unitario da parte dell'autore; si può parlare semmai di medesimo frangente temporale, gli anni 1851-1853, e di un'ispirazione che lo portò, come noto, a concentrare l'attenzione non su personaggi di estrazione elevata o di rango nobile – per quanto duchi, conti e baroni compaiano in tutti e tre i titoli – ma su figure, per l'appunto, di estrazione popolare.
Al di là di quelli sopra esplicitati, quindi (non diversamente dalla “trilogia dapontiana” di Mozart, che trilogia non è se non per il librettista, in quel caso perfino più dilatata nel tempo), non vi sono i presupposti filologici per una visione unificante delle tre opere, diverse per trama, ambientazione e tematiche – a differenza per esempio della Tetralogia wagneriana o della progettata trilogia sui Medici di Leoncavallo. E tuttavia, volendo di un autore considerare l'insieme della sua produzione come un arco artistico continuo, pensato in evoluzione, la cosa può avere senso. E può aver senso quindi enuclearne una fase particolarmente feconda e concentrata. L'iniziativa del Teatro Municipale di Piacenza di offrire delle tre opere una visione sinottica per cast, direzione e regia, in due tornate di date a stretto giro, tra ottobre e novembre 2025, è stata accolta perciò con entusiasmo da parte di pubblico e critica (per di più in terra verdiana…).
Ma non si tratta solo di questo. L'intento, pregevolissimo e più che lodevole, è anche quello di restituire le tre opere alla loro forma originale, così come concepite da Verdi, ripulendole dalle incrostazioni e dalle puntature di tradizione, effettistiche ma non fedeli. Proprio a proposito del suo Rigoletto Verdi ebbe a scrivere infatti: «Le mie note, belle o brutte che siano, non le scrivo mai a caso e procuro sempre di darvi carattere».
E partiamo quindi proprio dal Rigoletto andato in scena mercoledì 5 novembre 2025, prima delle tre seconde date del progetto. Come si diceva, cast, regia e direzione sono (quasi) gli stessi per i tre titoli. La regia è affidata a Roberto Catalano, che si avvale delle scene di Mariana Moreira, i costumi di Veronica Pattuelli, le luci di Silvia Vacca e le coreografie di Marco Caudera. L'ambientazione scelta da Catalano non ricalca pedissequamente le indicazioni librettistiche, ma se ne distacca con intelligenza, mantenendo aderenza allo spirito del libretto e proiettando la realtà drammaturgica in una dimensione sospesa, quasi idealizzata, con riferimenti sincretici a più epoche storiche, suggerite dai dettagli in scena, che di fatto non coincidono in pieno con nessuna epoca storica. Rigoletto, con l'immancabile gobba (che poi… immancabile… in alcuni Rigoletti manca eccome!), veste la giubba rossa del giullare, ma se ne libera nei momenti in cui la sua umanità emerge senza schermi, quando viene maledetto o poco prima del Cortigiani, quando la scaglia a terra affinché il padre oltraggiato e l'uomo ferito possano essere autentici. La gorgiera bianca e l'abito nero dei cortigiani fanno molto Seicento spagnolo o fiammingo – avete presente la Lezione di anatomia di Rembrandt? –, ma i lampadari elettrici che pendono sopra il salone del Duca contrastano in modo evidente, così come il bianco letto in ferro battuto, stile Ottocento o primo Novecento, di Gilda, anch'essa in un semplice abito bianco, connesso ovviamente all'idea di purezza. E bianco avorio sono pure le lesene e gli archi del palazzo del Duca, una sobria architettura rinascimentale classicheggiante. Tabarri, ferraioli e cappotti caratterizzano poi Rigoletto non in abiti da lavoro, il Duca, Monterone e Sparafucile. Più appariscente l'abito rosso cupo di Maddalena, più sobrio quello scuro di Giovanna.

Le parole d'ordine sembrano essere eleganza, sobrietà ed essenzialità. Gli accostamenti cromatici vertono spesso su bianco e nero – colpisce il lucido pavimento di marmo nero contro le eburnee arcate testé descritte, che nel secondo atto vengon come intaccate da panneggi scuri (la maledizione che avanza?). Gli oggetti di scena sono pochi e selezionati, cosa che, se a volte dà l'idea d'uno spaesamento un po' agorafobico, dall'altra si richiama all'asciuttezza di linee che informa le scenografie. La casa di Rigoletto si riduce al letto di Gilda e a una sedia, nella tenue penombra di una sfera gialla, la stanza del Duca si adorna giusto d'un canapè bianco; a casa di Sparafucile troviamo appena un tavolo, qualche sedia, una scaletta a sinistra che dà fuori scena, nella stanza dove andrà a dormire il Duca; la metà destra coperta da una parete nera assicura infine la contemporanea visione di esterno e interno, utile per il quartetto. Rinunciando a una collocazione temporale precisa, Catalano ha buon gioco di inserire un elemento simbolico che, nella sua discrezione, non turba lo svolgimento dello spettacolo e anzi apporta quel quid ulteriore che gli inglesi chiamerebbero creepy. Monterone ha appena maledetto il Duca e Rigoletto, ed ecco che una figura scarna, glauca, calva e avvolta in una lunga veste nera – inutile nascondersi: la saga di Harry Potter fa ormai parte della letteratura contemporanea e dire che questa figura ricorda da vicino Lord Voldemort non abbasserà il livello di tale articolo –, striscia sul pavimento, per poi ricomparire dopo il rapimento di Gilda da dietro un telo al fondo del palcoscenico, e infine campeggiare in un riquadro luminoso al termine dell'opera. E pensando che Verdi avrebbe voluto intitolare l'opera La maledizione, ci sono buone probabilità che essa voglia incarnare la maledizione stessa, peraltro portata in scena sulle spalle, inizialmente invisibile nel mantello, da Marullo: lo stesso che per primo dà notizia della presunta amante di Rigoletto, colui cioè dal quale deriva la sequela di avvenimenti che portano alla tragedia. Intuizione registica davvero notevole. Resta da chiarire che significhi la bambina cui vengono tagliati i capelli durante il Preludio. Lo chiarisce il regista stesso: la bambina è l'immagine intatta del bene «intaminato e puro», della dimensione vergine e ancora non corrotta, il Reno sprofondato nel suo Mi bemolle prima dell'arrivo di Alberich; la violenza del taglio di capelli è l'irrompere della violenza e della corruzione.
Se tale è la regia di Catalano, non da meno è il lavoro che Francesco Lanzillotta compie con l'Orchestra Sinfonica di Milano, col Coro del Municipale di Piacenza, che nelle mani di Corrado Casati sfoggia un amalgama impeccabile, e col cast. Se nel primo atto sembrerebbe adagiarsi su tempi un poco rilassati e una tensione che a volte perde di tenuta, cosa che tuttavia non inficia la compattezza della resa complessiva, nel secondo e nel terzo tale impressione è fatta dileguare da una direzione nitida e sostenuta, di buon incalzo, che si mantiene asciutta, precisa e secca e che non si perde in fronzoli, quasi riflesso in questo della regia, cui si aggiunge un colore strumentale in certi punti marcatamente caratterizzato – il colore livido, ombroso e “malato” dei legni all'avvio di Quel vecchio maledivami!, ad esempio. Colpisce soprattutto la grande trasparenza nel trattamento degli accompagnamenti orchestrali, coglibili al di sotto delle voci e perfettamente delineati; non è solo, tanto per dire, l'oboe sotto «Ned ei potea soccorrerti»; è per esempio il bilanciatissimo dialogo tra baritono e corno inglese, quasi un duetto alla pari, durante «Piangi, fanciulla», col violoncello solo in secondo piano, flebile ma presente. Delizie incantatorie dell'orchestrazione verdiana, mai uguale a se stessa nelle ripetizioni – in Signor?… – Va', non ho niente, in Veglia, o donna o in Sì, vendetta, ad esempio – portate in luce con perizia e scavo attento della timbrica orchestrale, vivaddio con nulla di “zumpappesco” e con rarissime concessioni, tanto alle voci quanto all'orchestra, a gigioneggiamenti non necessari. E l'emersione dei preziosismi non si limita alla parte strumentale, ma prosegue in quella vocale. Emergono infatti dettagli di linee canore normalmente non rilevate, specie negli assiemi. Prodigiosamente accentuata è la separazione delle linee vocali dei gorgheggi al termine del cantabile È il sol dell'anima; talmente accentuata che a un certo punto si ha l'impressione di un'indipendenza di linee, più che di una loro compenetrazione, con netto rilievo di quella del tenore.
Più diversificate, anche se nel complesso positive, le impressioni sul cast, quasi del tutto omogeneo come si diceva per tutta la trilogia. Ernesto Petti, che in questa recita prende il posto di Luca Salsi, si conferma un ottimo professionista, dotato di strumento adeguatamente scuro e potente, e delinea un Rigoletto sbalzato a tutto tondo, personale e ben caratterizzato. E se questa personalità, questo carattere viene un po' a smorzarsi nel terzo atto, a rendersi un po' più anonimo, si vuole imputarlo alla stanchezza di fine recita; la prestazione vocale si mantiene però fino alla fine sostenuta e decisa. Può fare a meno delle puntature di tradizione, come si diceva – «ah, no, è foll- Ì -a» in piano e sul Mi, non in forte e sul Sol, «difend- E l'onor» sul Mi bemolle e non sul Sol, la fondamentale piccola pausa prima di attaccare il Sì! Vendetta rispettata (mezza battuta con corona: poteva Verdi essere più chiaro che quella pausa la voleva?). Le sue qualità di interprete spiccano in un uso consapevole e dosato delle sfumature – dopo un esordio fin troppo disfogato, qui davvero gigioneggiato, su «Cortigiani, vil razza dannata», ripiega su un «per qual prezzo vendeste il mio bene?» in cui in filigrana traspare un «perché l'avete fatto? Perché mi avete fatto questo?» di umanissimo sentimento; un «Piangi, fanciulla» di disarmante affetto e sconfinata compassione – e nella variazione delle intenzioni nelle ripetizioni – il secondo «Veglia o donna» è diverso dal primo, più morbido, più sentito. E non sono che esempi.
A lui d'accanto è la piacevole scoperta di Maria Novella Malfatti, soprano di voce pastosa, con gravi rotondi e ben raggiunti, agile e aggraziata negli acuti, dove a dispetto del colore tendenzialmente scuro esibisce un'apprezzabile luminosità. Fa capolino qualcosa di scolastico nelle fioriture di Caro nome, peraltro più che corrette, e in quelle in duetto col Duca, di cui s'è detto; ma, non si sa se per una tecnica che diviene più smagata per calcolo dal primo atto a quelli successivi, o per una semplice “messa in moto”, di sblocco interno dell'interprete, la Gilda del prosieguo pare maturata, più consapevole, come se il trauma l'avesse fatta crescere di colpo, strappandola alla crisalide della sua camera verginale. E questo appare nel canto, con un Tutte le feste che di scolastico non ha più nulla e con un'ammirevole controllo e partecipazione nel finale del secondo atto assieme a Rigoletto.

Adolfo Corrado si dimostra un dignitoso Sparafucile, dal timbro non particolarmente scuro e dall'affondo al grave non particolarmente pronunciato, ma che disimpegna bene il ruolo in grazia anche di un coinvolgimento scenico credibile. Similia possono dirsi per la Maddalena di Irene Savignano, voce rotonda e completa, un po' leggera ma in grado di tener testa al suo spartito, rendendolo efficacemente sia a livello canoro, sia recitativo. Timbro chiaro, voce lucida e presente, buon volume e facilità in acuto invece per la Giovanna di Ester Ferraro, che stupisce per queste caratteristiche dato il tipo vocale. Quanta strada ha fatto Omar Cepparolli da quando lo vidi debuttare come Don Pasquale al Carlo Felice di Genova nel 2023! Qui lo ritrovo come un buon Monterone, forse un po' chiaro per il ruolo e dal volume un poco insufficiente per colui che dovrebbe impersonare il Commendatore della situazione, ma dotato di voce squillante e di bella dizione, che lo rende più “parlante” di altri Monteroni in circolazione, e di sicuro incisivo nelle sue invettive. Un ruolo che può dire di aver ricoperto, assieme al Dottor Malatesta di quella produzione, qui convertito in un altrettanto valido Marullo: Nicola Zambon. Simone Fenotti come Borsa, Davide Maria Sabatino come Conte di Ceprano, Lorenzo Sivelli come Usciere e Giulia Alletto nel doppio ruolo del Paggio e della Contessa di Ceprano completano il valido comprimariato.
Francesco Meli merita un paragrafo a parte. Il suo Duca si avvantaggia di uno strumento dalle qualità note: uno squillo innegabilmente ancora fresco, un'efficace proiezione, una voce bene in maschera, passaggi di registro risolti senza apparenti difficoltà, complice una muscolarità allenata e la risorsa del mestiere. Una bella tornitura di parola e un curato fraseggio riposano in seno a sfumature molto molto curate, un uso sapiente dei colori e delle mezze voci, specialmente in tutto il primo atto. L'esordio del secondo atto, Ella mi fu rapita!, è un fiume in piena di vocalità spiegata, dove la comprensibile ira del personaggio viene risolta in un canto nobile, di volume consistente e gran peso specifico. Duole però notare che i colpi di tosse uditi all'entrata in scena hanno condotto a un paio di défaillance durante Possente amor. Uscito in proscenio a scusarsi, adducendo una bronchite ancora in via di guarigione, è stato subissato dagli applausi di un pubblico che ha compreso la difficoltà e ha ammirato l'umiltà dell'ammissione e il coraggio di portare a termine, con più prudenza di prima ma senza altri incidenti di sorta, tutto il terzo atto, con un La donna è mobile eseguita come il faut (senza la cadenza di tradizione, nell'ottica restaurativa sopra spiegata) e un quartetto disinvoltamente declinato. Resta da chiedersi come affronterà Manrico fra due giorni e Alfredo fra quattro. Per la recita in esame, incassa a fine spettacolo altri entusiastici applausi assieme a tutto il cast, al Coro e a Lanzillotta, da parte di un Municipale che ha dato prova di abbondare quanto a calore umano. Che fa sempre bene.
Christian Speranza
9/11/2025
Le foto del servizio sono di Gianni Cravedi.
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