Dostoevskij e il suo doppio
Trasporre un romanzo per la scena è sempre un esperimento rischioso: più e più volte abbiamo ribadito la non necessità di andare a frugare nella narrativa quando la letteratura drammaturgica, antica, moderna e contemporanea, possiede un'infinità di lavori che potrebbero saturare tutte le stagioni teatrali da qui all'eternità. È con questo spirito che abbiamo inizialmente assistito alla prima de Il giocatore, una coproduzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile di Catania, andato in scena il 14 novembre, con repliche fino al 26. Una volta tanto, la locandina annunciava chiaro e tondo che si trattava di un adattamento da Fëdor Dostoevskij ad opera di Vitaliano Trevisan, sottolineando in quel da un'esplicita manipolazione del romanzo omonimo del grande scrittore russo e con ciò la non volontà di nascondersi dietro la sua ombra, il che ci rassicurava sull'onestà di fondo dell'effettivo autore di questo Il giocatore che, pur rispettando nelle linee generali l'opera di Dostoevskij, introduce sin dalle prime battute un'originale raddoppiamento di piani, mettendo contemporaneamente in scena la vicenda narrata e quella personale di Dostoevskij all'epoca della stesura del romanzo.
Come si sa, Dostoevskij era giocatore anch'egli, e lo fu per tutta la vita, sperperando proprio alla roulette grandissima parte dei proventi della sua arte: ma pochi forse sanno che Il giocatore fu scritto in circa un mese, da uno scrittore pressato dai creditori, cui erano morti la moglie e il fratello da due anni e che era reduce da un legame burrascoso e torbido con una donna, Apollinarija Suslova, le cui caratteristiche sono ben adombrate sia nella protagonista femminile del romanzo, Polina, sia in Mademoiselle Blanche, la francesina che, sempre a caccia di soldi, convincerà il protagonista, reduce da una vincita milionaria alla roulette, a partire con lei per la Francia, ottenendo di fargli dilapidare tutto e di farlo finire in seguito in prigione per i debiti di gioco contratti nella vana aspettativa di rifarsi. Ad aiutare Dostoevskij in questa impresa fu una giovanissima stenografa, Anna Grigor'evna Snitkin, che in seguito divenne sua moglie.
Su questo parallelismo reale tra romanzo e vicenda esistenziale, Trevisan ha intessuto un copione rapido e veloce, che appunto per questo continuo gioco di rimandi riesce a evitare con successo il difetto fondamentale delle riduzioni teatrali di un testo di narrativa, e cioè i lunghi e verbosi monologhi necessari alla sostituzione scenica dei ponti narrativi. I personaggi, perfettamente stilizzati, sembrano muoversi più all'interno del grottesco gogoliano che nella cupa riflessione tipica di Dostoevskij, con effetti da un lato genuinamente comici, ma dall'altro in grado di rendere emotivamente palpabile l'ossessione del gioco che percorre tutta la pièce. Inoltre, i due piani di fondo rimangono sempre nettamente distinti, senza mai sovrapporsi, in un perfetto equilibrio tra finzione narrativa e vissuto dell'autore, equilibrio affidato soprattutto ai magistrali passaggi di registro nella recitazione di Daniele Russo (Aleksej- Fëdor Dostoevskij) e Camilla Semino Favro (Polina-Anna Grigor'evna).
La regia di Gabriele Russo si rivela funzionale a quest'idea di fondo, componendosi di stanzette interne che affacciano sul palcoscenico, quasi nicchie dalle quali emergono i personaggi o nelle quali si rifugiano, stanati di volta in volta da Aleksej, da Polina, o dalla terribile Baboulinka, la ricchissima, decrepita zia che, giunta per controllare le malefatte del generale suo nipote, finirà anch'essa vittima della roulette, riducendosi quasi sul lastrico, in una sorta di contagio giocatorio che sembra pervadere fisicamente tutti i personaggi. E gli effetti registici, con i numeri immensi che si illuminano al neon annunciati dal croupier, contribuiscono a immergere lo spettatore in questa specie di nevrosi contagiosa e insensata, quasi un delirio nel quale l'uomo si riduce a un decerebrato schiavo dei numeri, dell'ansia di rifarsi, di una spirale ossessiva di ricchezza e miseria determinata dal capriccio del caso.
A questo punto, più che di una riduzione da Il giocatore, sarebbe più giusto parlare di un vero e proprio lavoro teatrale originale, la cui particolarità sta nell'essere riuscito a indagare, sulla falsariga delle vicende biografiche e artistiche di Dostoevskij, sia lo stretto legame biografico e psichico tra il romanziere russo e il protagonista del suo romanzo, sia soprattutto la patologia mentale che è all'origine della mania del gioco d'azzardo, i cui effetti chiunque può ancora e soprattutto oggi vedere solo recandosi presso una ricevitoria del lotto o un semplice tabaccaio.
All'altezza dei protagonisti tutto il resto della compagnia, da Marcello Romolo, il generale, ad Alfredo Angelici, Mr. Astely, da Martina Galletta, M.lle Blanche a Sebastiano Gavasso, De Grieux e Alessio Piazza, il croupier, tutti attori dotati di ottima mimica e padronanza della scena, e soprattutto di un'egregia dizione, che ha permesso agli spettatori di non perdere una sillaba nemmeno nei momenti più rutilanti e travolgenti dello spettacolo. Un plauso particolare è doveroso per Paola Sambo, una Baboulinka vivacissima e scatenata, impetuosa ma al tempo stesso capace di far quasi palpare con mano il lento, inesorabile degradarsi della persona caduta nelle reti del gioco, il passare dall'esaltazione della vincita alla disperazione più nera della perdita, fino all'atto estremo di violenza da compiere su se stessi per liberarsi dalle spire della roulette.
Giuliana Cutore
15/11/2017