L'umanità del canto
Non sappiamo se succede lo stesso ai nostri amici frequentatori dell'opera, ma per quanto ci riguarda, già alla vigilia di una rappresentazione l'animo si prepara e si dispone in qualche modo, e sulla base dei ricordi di quanto già visto e raccontato si crea un'immagine sintetica dello spettacolo. L'Andrea Chenier in questo caso – non ce ne vogliano i sostenitori più accesi – evoca un che di maniera, di Italia polverosa dei primi del Novecento: una prima pagina della Domenica del Corriere, ecco.
In una bella domenica di sole primaverile, questo matinée ha strappato a una bella passeggiata molte persone, tanto che il teatro risulta pienissimo, fin nelle retrovie del loggione. A far da contraltare al sole accecante della piazza, il foyer del Teatro Valli, dove, abituato l'occhio, compaiono alcuni preziosi manifesti originali di due precedenti edizioni di questa opera presso quello che una volta era conosciuto come Teatro Municipale. Ne salta all'occhio uno in particolare, quello per la Stagione di Carnevale del 1924-25: caratteri austeri e composizione rigida rispetto agli standard contemporanei, nessun particolare motivo grafico o immagine artistica che richiami trama ed epoca dei fatti, un semplice avviso rivolto alla comunità insomma; un'altra epoca, un altro modo di comunicare. Che dire, dopo questa conferma visiva la nostra immagine sintetica si consolida, ma è subito smentita dal manifesto di questa edizione, in cui campeggia una dettaglio fotografico della Colonna Vendome distrutta dai comunardi di Parigi nel 1871. Un'immagine forte, dal gusto postmoderno e acuto, semplice, che preannuncia, almeno nella nostra immaginazione, un Andrea decadente e dalle tinte fosche.
Forse perché è giornata di contraddizioni per volere del destino, o forse per una precisa volontà della regia, tutto ciò viene smentito in maniera decisa quando il sipario si apre rivelando un enorme dipinto quadrato al centro della scena, raffigurante una scena familiare bucolica, in perfetto accordo con il gusto di fine XVIII secolo. Il resto della scena, nel complesso, ha un che di indefinito, con una spazialità che schiaccia l'azione verso il proscenio mentre alcuni dettagli, come ad esempio le sedute di un blu acceso – come da libretto – appaiono troppo reali, come se fossero state scelte e trasportate da un magazzino pochi minuti prima.
Leggendo a posteriori alcune note di regia, ci viene svelata la chiara intenzione di Nicola Berloffa di proporre una rappresentazione che si concentri esclusivamente in spazi interni, i quali vengono via via spogliati dei decori aristocratici per lasciar spazio, soprattutto da un punto di vista formale, ai valori della Rivoluzione. Purtroppo però la dinamica dichiarata dal regista, tradotta in scenografia da Justin Arienti, fatica a ingranare: manca a nostro avviso un pizzico di quella maestria, fondamentale nell'arte teatrale, che fa apparire cose e trasformare stati d'animo dove e quando lo spettatore meno se l'aspetta. La regia stessa, infatti, non pretende dal pubblico un'attenzione da teatro d'avanguardia, si limita a dirigere gli interpreti nel modo più semplice possibile, riempiendo la scena quando ce ne è bisogno, illuminandola abbondantemente, piazzando qualche luce di taglio qua e là, nei momenti più salienti. E si torna a quel teatro che avevamo immaginato all'inizio, dove i protagonisti sono i teatri locali, le imprese e gli impresari senza grilli per la testa, le scene prese alla lettera dalle indicazioni di libretto. C'è però una diretta conseguenza di una scelta di questo tipo: l'enorme spazio che volutamente o involontariamente viene concesso alla musica e ai cantanti. E con questo non intendiamo capacità attoriale o presenza scenica, ma semplicemente il saper cantare bene, per un pubblico che probabilmente non aspetta altro e che in questa domenica di marzo è stato generosamente accontentato. Va infatti attribuita una speciale lode alla generosità vocale dimostrata da tutti i cantanti, i quali hanno dato il meglio in un'opera che di certo non viene ricordata per la bellezza di trama e libretto. Le voci maschili sono un muro di potenza e presenza: va ovviamente ricordato, tra gli altri, Martin Muhele, Andrea Chénier, un artista dinamico e generosissimo, che stupisce per potenza e precisione, affiancato dal bravo baritono Claudio Sgura, Gérard, una sorta di contrappunto vocale alla malinconica solarità del collega, stemperata e risaltata dal proprio tono, cupo e legnoso.
Com'è noto i personaggi dell'opera sono tanti, tante sono le sfumature delle voci, troppo sarebbe lo spazio necessario per descriverle una ad una. Non possiamo però non soffermarci sulla impareggiabile bellezza dell'interpretazione di Saioa Hernàndez, Maddalena, soprano di chiara fama, voce e tecnica incredibili. La mamma morta era chiaramente quello che tutti aspettavano dall'inizio e già alle prime note tra le file della platea si respira appagamento, il pubblico ammutolito ascolta avidamente, desiderando segretamente che il brano non finisca mai più.
Alla conclusione scrosciano applausi commossi, sibilano numerose richieste di bis; il direttore getta uno sguardo alla cantante e lei, immobile nella sua posizione, alza sommessamente lo sguardo e trattenendo con fatica la felicità che trabocca dagli occhi di chi fa il mestiere più bello del mondo, accenna un impercettibile gesto con le mani: “Rifacciamolo!”.
Giovanni Giacomelli
7/3/2019
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