Razza italica e condottieri di latta
Non c'è peggior errore che ritenere che la follia del nazifascismo sia un episodio della storia umana ormai definitivamente archiviato: il bisogno di rappresentare il diverso come un nemico, di dividere gli uomini in razze, l'idea sola che ciò che è bianco sia superiore a ciò che è nero, giallo o di altri colori, cianciare di una presunta superiorità o della salvaguardia della razza bianca facendo appello alla genetica, teorizzare la funzione esclusivamente riproduttiva della donna suggerendo implicitamente di relegare più di metà dell'umanità tra le mura di casa facendo appello a sciocchezze come il peso del cervello femminile per negare la possibilità che la donna possa essere intelligente quanto l'uomo, sono tutti deliri sistematizzati sempre in agguato a opera di menti che, per giustificare il fallimento politico a livello mondiale di una classe di governo (formata oggi sia da donne che da uomini), non trovano di meglio che fornire uno straccio di ideologia distraente per stornare l'attenzione dalla propria insipienza, scaricando di fatto le responsabilità dello sfascio totale su individui vittime, qualunque sia il loro colore, di un sistema basato o sulla corruzione, o sul predominio della finanza, o sulla sete di potere, o sulla guerra come mercato per i produttori di armi. Tali idee aberranti forniscono alimento a un fenomeno ben noto in psicologia, fenomeno per il quale il disagio sociale, mentale o esistenziale, viene canalizzato su una categoria di persone, ritenute colpevoli di tale disagio, che dunque vanno perseguitate, vilipese, all'inizio, e poi eliminate più o meno sistematicamente. È un meccanismo che sta alla base degli scontri tra tifoserie, tra gruppi etnici, tra strati sociali, tra individui appartenenti a religioni diverse: si comincia col menarsi tra tifosi di squadre diverse e si finisce coll'estendere questa pratica agli omosessuali, alle persone di colore, agli ebrei, e via di seguito. Ben vengano dunque, lavori teatrali come Una giornata particolare, andato in scena allo Stabile di Catania il 23 gennaio (con repliche fino al 28), tratto dalla sceneggiatura di Ettore Scola e Ruggero Maccari dell'omonimo film con protagonisti Marcello Mastroianni e Sofia Loren, adattato per le scene da Gigliola Fantoni. È raro che una riduzione teatrale, ma qui sarebbe meglio parlare di ri-creazione teatrale, non faccia in alcun modo rimpiangere l‘originale, e anzi riesca a trarne ancora qualcosa di nuovo. La regista Nora Venturini ha optato per una diversificazione e sovrapposizione di piani, inserendo prima e durante l'azione scenica inserti cinematografici originali dell'epoca (il 6 maggio 1938, giorno della visita di Hitler a Roma), il che ha conferito una profondità d'azione davvero cinematografica all'insieme. Le funzionalissime scene di Luigi Ferrigno, consistenti in due piani, uno per la casa di Antonietta, uno per quella di Gabriele, che all'occorrenza si tramuta in terrazzo dello stabile, piani collegati da una sorta di scalinata a vista ad ambo i lati della scena, riuscivano perfettamente a ricreare il via vai dei due protagonisti fra i rispettivi appartamenti, evitando al tempo stesso ogni sensazione di staticità. Gli inserti video, curati da Marco Schiavoni, contribuivano anche, con il loro roboante e trionfalistico linguaggio, a evidenziare lo stridente contrasto tra l'Italia propagandata dal regime, tronfia, potente, virile e italica, e la dolorosa vicenda che si svolgeva sulla scena.
Antonietta e Gabriele sono entrambi prigionieri e vittime del regime, casalinga ignorante e rozza lei, ammiratrice di Mussolini sino al delirio erotico, ma che non riesce nemmeno a capire che uno dei corollari del fascismo è l'oppressione della donna, relegata a macchina per figli, omosessuale lui, condannato al confino, ma soprattutto all'aberrante condizione di vergognarsi di se stesso, perché non rispondente ai canoni di maschia virilità mussoliniani : durante la loro giornata particolare, specchio rovesciato della tronfia e trionfalistica giornata dell'incontro tra i due dittatori, scavano in se stessi, nella loro diversità, sino a trovare un istante di incontro, in cui l'uno accetta incondizionatamente l'altro, riemergendone mutato. Antonietta comprenderà che esiste anche un altro modo di stare con un uomo, diverso da quello rozzo e avvilente del marito, mentre Gabriele assaporerà il gusto di non nascondersi e di donare se stesso, anche solo una volta, a una donna.
L'estrema malinconia di tale occasione montaliana, scaturita dalla fuga del merlo dalla gabbietta in cerca, come i protagonisti, di un'impossibile libertà, risultava amplificata dalle vuote stupidaggini che la propaganda di regime continuava a sciorinare dagli inserti video. Alle declamazioni italiche faceva eco la recitazione sommessa e aristocratica di Giulio Scarpati nel ruolo di Gabriele, che ha saputo infondere al suo personaggio tutta la tristezza sconfinata del reietto della società, la cui condanna reale non è tanto il confino, ma il doversi vergognare di se stesso, quasi un costume sessuale possa annientare il valore umano di una persona. Reietta anche Antonietta, cui Valeria Solarino ha prestato il dialetto siciliano, per renderla diversa due volte, perché donna e perché meridionale, ma senza forzature, senza compiacimenti, infondendo anzi al personaggio tutto lo spaesamento e lo stupore di chi per la prima volta si sente trattato come una persona e non come una macchina per le pulizie e per la riproduzione.
Giuliana Cutore
25/1/2018
La foto del servizio è di Lanzetta Capasso.
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