Avere vent'anni
Parola d'ordine: under 30. Nata sette lustri or sono grazie alla volontà di Claudio Abbado, la Gustav Mahler Jugendorchester resta ancora oggi il più amato e ambito degli ensemble giovanili europei. Le più fresche e selezionate promesse del vecchio continente, soggette a un incessante ricambio biennale (i “pulcini” non arrivano a vent'anni, i “veterani” raggiungono i ventisei, solo per il primo violino – italiano, attualmente: si chiama Giuseppe Mengoli, perfezionatosi a Würzburg – è ammesso un leggero sforamento anagrafico), si amalgamano e intrecciano sotto la guida di molte prestigiose bacchette internazionali: tra una violoncellista francese e un oboista portoghese, una flautista serba e un contrabbassista svedese per una volta verrebbe davvero da credere a un'Europa delle fratellanze culturali, anziché dei mercati finanziari. Il Bolzano Festival, che delle orchestre sinfoniche giovanili è sempre stata una sollecita vetrina, ha proposto quest'anno due concerti della Mahler; e sebbene non si fosse partiti sotto i migliori auspici (il glorioso novantacinquenne Herbert Blomstedt, che avrebbe dovuto dirigerla, ha dovuto rinunciare a seguito di una caduta), i risultati sono stati ancora una volta entusiasmanti, grazie a un sostituto di lusso pressoché ignoto in Italia come Jukka-Pekka Saraste. Chiamato a farsi carico di un doppio programma a lui congeniale la seconda sera (una Seconda di Sibelius che Saraste, da bravo finnico, ha diretto a memoria), ma che lo vedeva nelle vesti di parvenu di lusso per quanto riguarda il primo concerto (la Settima di Bruckner, storico cavallo di battaglia per Blomstedt), il maestro finlandese è pervenuto comunque alla quadratura del cerchio: da un lato restituendo un Sibelius in totale unità d'intenti con l'autore, dall'altro offrendo un Bruckner visto come da lontano. Dunque il tardoromanticismo che permea la Seconda , un po' fuori tempo massimo per quel 1902 in cui vide la luce, viene corroborato – anziché banalmente assecondato – da Saraste in un'interpretazione empatica e idiomaticissima, priva di qualsivoglia cascame ciaikovskiano e dove, semmai, il senso esteriore del tragico cede il passo alla cognizione del dolore, mentre le pennellate rustiche si stemperano in limpida vena popolare. Al contrario, la monumentalità bruckneriana non si coagula in superiore plasticità di resa: qui Saraste preferisce essere espositivo piuttosto che ermeneuta e sembrerebbe chiedere, ai ragazzi della Mahler, che la contrapposizione tra grandi blocchi autonomi – quel procedere per macrostrutture proprio del Bruckner sinfonista – suoni non come mezzo, ma vero e proprio fine. Ne è corollario una lettura più oggettiva, narrativa e “sana” (la più appropriata per un'orchestra giovanile, forse) di quanto non voglia la tradizione: di estenuazioni malsane e putrescenti – dimentichiamoci Visconti e la colonna sonora di Senso – in questa Settima resta poca traccia.
La sorpresa più grossa, però, è forse arrivata dal terzo incomodo, ovvero Schubert. Con impaginazione concettualmente assai raffinata, il secondo concerto faceva precedere un brano passatista come quello di Sibelius da uno Schubert ancora epigonico e classicista qual è quello della Terza Sinfonia: lungi da avallare la supposta immaturità della partitura, e salvaguardandone però quella sintetica scorrevolezza che resta il suo marchio di fabbrica, Saraste ne ha fatto una sorta di squisito ponte non solo con Haydn, ma con Rossini, dove sonorità e ritmica occhieggiano alla freschezza e alla gioia dello stile italiano. Ne sortisce un circuito virtuoso (lo Schubert rossinista e italianeggiante come contraltare del Rossini “tedeschino”) che apre una finestra ben più vasta degli angusti confini della Terza, né il concerto di Bolzano intendeva essere la sede per esplorarla. Ma sono orizzonti su cui sarà proficuo dibattere, se non altro perché lasciano scorgere in Saraste una potenziale, e insospettata, grandissima bacchetta rossiniana.
I ventenni della Mahler hanno corrisposto il maestro con scioltezza e concentrazione a un tempo, senza dar segni di disagio davanti a quella che era – benché non lo si sarebbe detto – una sostituzione dell'ultimo momento. Elogiare la compattezza dei fiati in Bruckner, la fluidità degli archi in Schubert, la puntualità delle percussioni in Sibelius è doveroso, ma, alla fine, ciò che resta nella memoria è l'appiombo di una “macchina da musica” irripetibile nel suo insieme. Di due anni in due anni i ragazzi cedono il passo ad altri ragazzi, ma è dal 1986 che quella miracolosa omogeneità resta intatta.
Paolo Patrizi
27/8/2022
La foto del servizio è di Luca Guadagnini.
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