Giovanna d'Arco di Verdi oratoriale
per la prima volta a Bruxelles
Salome Jicia
La vicenda dell'eroina lorenese (1412-1431), che risollevò le sorti della Francia nella secolare guerra contro l'Inghilterra già impiantata in un'ampia porzione del territorio francese, e poi finì sul rogo come strega, è abbastanza nota per sommi capi grazie anche al cinema recente e antecedente. La Chiesa, che l'aveva condannata all'infamante supplizio, ad appena un quarto di secolo di distanza dichiarò nullo quel processo (con decreto di Papa Calisto III). Meno di cinque secoli dopo sarebbe giunta la canonizzazione. Ma ben prima di tale riabilitazione solenne (in cui la Chiesa che l'aveva condannata, più che battersi il petto si appropriò dell'aureola della propria vittima), la breve quanto incredibile esistenza dell'adolescente guerriera aveva ricevuto vasta e varia eco nel teatro e nella letteratura, nelle arti figurative e nella musica. Da Gaetano Andreozzi (1789) a Peter Ciaikovski (1881), a Honegger (1937) e oltre si contano numerosi melodrammi di cui è protagonista, tra gli altri quelli di Nicola Vaccai (1827), Giovanni Pacini (1830), Michael Balfe (1837) e Giuseppe Verdi (1845). La Giovanna d'Arco verdiana, benché sporadica, non ha perso il contatto con la scena. Prima volta a Bruxelles non significa prima in Belgio, poiché già nella primavera 2005 la Vlaamse Opera l'aveva data in forma di concerto ad Anversa e Gand. Verdi la compone nella piena degli “anni di galera”, tra scadenze che incalzano in vari teatri. Riapproda alla Scala il 15 febbraio 1845 con questo dramma lirico in un prologo e tre atti su libretto di Temistocle Solera di matrice parzialmente schilleriana (Die Jungfrau von Orleans, 1801). Ma sia Schiller che Solera si son prese le rispettive libertà con la storia e Verdi con loro. Siamo di fronte a un melodramma di grande esuberanza musicale e di non troppo discreta stravaganza teatrale, nei pregi come nei difetti.
Se in Schiller l'eroina si sente attratta da un ufficiale nemico, Solera addirittura escogita una love story, sia pur effimera, tra Carlo VII e Giovanna (nell'opera, come riconosceva Donizetti, i soggetti senza amore rimangono freddi).
Tanto Schiller che Solera eliminano la condanna al rogo e fanno morire dopo una vittoriosa battaglia la protagonista. Se il Verdi di “galera” riesce con agile teatralità al centro del dramma a far maledire dalla folla colei che un momento prima aveva gioiosamente acclamato, dopo che il padre di lei ha dichiarato che Giovanna ha patteggiato coi demoni, conferisce tuttavia a questo padre ottenebrato il primato “invidiabile” della più rara imbecillità tra i padri verdiani. Ma le assurdità del libretto non impediscono al trentunenne bussetano, qui alla settima fatica teatrale, di creare un “forte drammatismo col quale la forma musicale è piegata a nuovi effetti” (Paolo Isotta).
Il pubblico scaligero l'applaude con entusiasmo, grazie anche alla protagonista, il soprano Erminia Frezzolini, mentre la critica maltratta il compositore, senza che ciò diminuisca affatto la popolarità della
Giovanna. Verdi dal canto suo dichiara: “È la migliore delle mie opere senza eccezione e senza dubbio… “. Addirittura!
L'esecuzione oratoriale priva di una componente essenziale l'opera lirica, vale a dire la dimensione teatrale. Tuttavia con l'odierno imperversare di registi prepotentemente “testosteronici” quanto a fantasia, la fruizione ridotta dello spettacolo risulta quasi più accettabile. Ridotta sì, ma in grado di far convergere l'attenzione sulla musica e sul canto, non distolti da recondite o sibilline visioni registiche. E la gremitissima sala della Monnaie la seconda sera si è concentrata a suo agio.
Giuliano Carella, più che conoscere Verdi, lo sente e lo respira, mentre per il Verdi giovane non è certo svantaggiato dalla dimestichezza con Rossini, Donizetti, Bellini e Mercadante. Sin dalla sfolgorante ouverture – dove, tra soavità pastorali e trascinanti furori bellici, Verdi occhieggia quella del Tell rossiniano – la partitura scorre varia, ora maliosa ora irruente, e poco resistibile, anche quando l'arte cede al mestiere, grazie all'eccellente Orchestra Sinfonica della Monnaie guidata con mano sapiente da Carella.
La protagonista, il soprano georgiano Salome Jicia, è ormai di casa nel repertorio del primo Ottocento, in cui costituisce una ragguardevole acquisizione. La sua Giovanna è fresca, trepida, vibrante, intensa, pur con talune asprezze negli estremi acuti. I suoi partner la coadiuvano con altrettanto prestigio, imponendosi al pari di lei nelle pagine solistiche come negli insiemi, in particolare nel magnifico concertato spartiacque dell'opera. Il tenore Francesco Meli, non novizio nel ruolo di Carlo VII, sfodera un accento robusto, caldo, luminoso, spavaldo nello squillo eroico, toccante nel dubbio e nell'abbandono. Terzo indispensabile personaggio Giacomo, padre di Giovanna, che il baritono greco Dimitri Platanias incarna con pregevole talento verdiano, servito da un timbro brunito, sonoro ed eloquente, che gli attira subito il favore del pubblico. Completano il cast con onore, nei rispettivi ruoli minimi, il basso Carlo Cigni (Talbot, comandante dell'esercito inglese) ed il tenore Maxime Melnik (Delil, ufficiale del re).
Il Coro della Casa, qui impegnatissimo, si mostra sempre all'altezza nei numerosi interventi, giovandosi ancora una volta della direzione di Martino Faggiani.
Fulvio Stefano Lo Presti
2/11/2019
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