RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il fuoco di Vesta, l'ombra di Maria

Tassello intermedio dei tre eventi celebrativi con cui Jesi ha inteso solennizzare il duecentocinquantenario di Spontini (pochi mesi fa si era avuto il concerto di Riccardo Muti, a novembre seguirà la riscoperta del giovanile I quadri parlanti), La vestale rappresenta il più ineludibile e, in un certo senso, più pericoloso fra tali appuntamenti: che il Festival Pergolesi Spontini, a fronte di tante memorabili produzioni pergolesiane, in un quarto di secolo non avesse ancora messo in scena nessuno dei grandi capolavori spontiniani – concentrandosi invece sulle opere buffe del periodo di apprendistato – era il cruccio della manifestazione jesina; e l'appuntamento con La vestale è scoccato all'insegna d'un “Se non ora, quando?” carico di speranze trepidanti e aspettative d'alto profilo (versione in lingua originale francese, edizione critica, pochissimi tagli). Molto volenteroso, certo interessante e forse inevitabilmente un po' discontinuo, l'esito conferma che il rinvio era motivato dalle difficoltà che un'opera del genere impone a un teatro medio-piccolo: c'è comunque da esser grati al Pergolesi di Jesi per aver tentato il grande salto, così come è facile ipotizzare che le repliche nei palcoscenici coproduttori (Piacenza, Ravenna, Pisa) ovvieranno a qualche sfasatura percepibile in questa première.

Gianluca Falaschi conferma pregi e limiti di chi, nato scenografo e costumista dall'indubbio talento, decide di firmare in toto i propri spettacoli passando anche alla regia: preminenza dell'aspetto figurativo, una certa debolezza (o pretestuosità) nel Konzept, capacità di attribuire rilievo più agli oggetti di scena che alla gestualità degli interpreti. Lo spunto iniziale – l'identificazione tra la vestale Giulia e Maria Callas, che, complice Luchino Visconti, consentì a metà del secolo scorso la rinascita di quest'opera – ha un suo appeal metateatrale e consente un'ambientazione anni Cinquanta utile a ricordarci come pure Spontini riprodusse, sebbene all'interno d'un soggetto neoclassico, situazioni sentimentali fondamentalmente borghesi. Purtroppo tale punto di partenza viene poi da un lato appesantito da filmati non sempre ben gestiti, dall'altro diluito da trovate tanto estetizzanti quanto eterogenee.

I video mostrano l'Io diviso della donna-primadonna, le sue angosce di vestale moderna che sostituisce quello di Vesta con fuochi d'altro tipo ma ancor più brucianti: sono innesti, però, che hanno il sapore d'un binario parallelo rispetto alla narrazione principale, risultando sulla distanza tanto manieristici, nel loro bianco e nero vintage, quanto antiteatrali. Mentre le molte, troppe trovate oscillano tra un citazionismo figurativo calligrafico ma elegante (il costume della protagonista, fedele riproduzione di quello indossato dalla Callas nello spettacolo di Visconti alla Scala, trasformato in feticcio fino a rievocare la plasticità del Cristo velato di Sanmartino) a espedienti eccessivamente caricati: è il caso di Licinio, tramutato in un cascame del ventennio – brillantina a gogò, mano sulla patta dei pantaloni – per ricordarci il legame tra fascismo e romanità; o del Gran Sacerdote (spogliato dai paramenti sacri, ma bigotto e feroce comunque) che cena da solo davanti a una tavola imbandita fantasticando nefandezze, proprio come Scarpia nel secondo atto di Tosca. Restano però, a difendere le ragioni di uno spettacolo classico-moderno, le coreografie di Luca Silvestrini, davvero ben riuscite. Le danze nel primo atto e nel finale dell'opera – che per Spontini rappresentano due momenti strutturalmente imprescindibili, ma cerimoniali ed esornativi – si trasformano qui in una sorta di controcanto minimalista (in scena solo quattro danzatrici e quattro danzatori) e “morale”: una fisicità angosciosa lontanissima dal cliché spettacolare del balletto nella tragédie-lyrique d'inizio Ottocento, che nell'epilogo si fa addirittura demistificatoria tra le risate dei formidabili otto ballerini, mentre il costume da vestale resta solo in scena, svuotato della sua protagonista – e forse svuotato anche di senso.

Alessandro Benigni, alla guida dell'Orchestra La Corelli (ensemble intitolato al grande compositore barocco, non scelto per omaggiare Franco Corelli che, della Vestale con la Callas, fu il protagonista maschile), si dimostra bacchetta apprezzabile per la varietà della dinamica e un po' meno per l'articolazione dell'agogica. Non sarà così idiomatico da restituire in ogni piega quella sintesi di sollecitazioni diverse (Gluck, il Settecento italiano, l'opera francese coeva, il sinfonismo inteso come accrescimento – più che superamento – del linguaggio operistico) in cui si sostanzia la partitura della Vestale, ma è comunque un buon traghettatore verso il protoromanticismo imbevuto di severità classiciste caro a Spontini: un classicismo, nel caso di Benigni, restituito per pennellate piuttosto che per plasticità costruttiva – più Ingres che Canova, diciamo – ma comunque ben reso anche nel rapporto con i cantanti.

Carmela Remigio fa quel che può per raccogliere il testimone della Callas: musicalità salda, grande concentrazione espressiva, notevole presenza scenica e una vocalità oggi depauperata in termini di “legato” e morbidezza, che le consente ancora esiti autorevoli nel declamato tragico, ma l'inaridisce negli abbandoni lirici. E se nel 1954, nello spettacolo di Maria e Luchino, l'amoroso Licinio era prevedibilmente tenore e l'amico di Cinna conseguentemente baritono, l'edizione critica di Federico Agostinelli – tessiture alla mano – capovolge la situazione: tuttavia, se per il ruolo baritenorile del generale romano un baritono acuto come Bruno Taddia non è opzione disdicevole, resta comunque una scelta peregrina (un cantante specializzato come buffo nel ruolo che fu di Corelli…), anche per la ruvidità, pur sagacemente piegata a fini espressivi, del canto di Taddia. Se ne avvantaggia invece Cinna, perché il giovane libanese Joseph Dahdah è un tenore lirico morbido e luminoso, da riascoltare con attenzione.

La Gran Vestale e il Gran Sacerdote danno voce all'autorità, quando non all'implacabilità, della religione: Daniela Pini e Adriano Gramigni si lasciano un po' sfuggire le potenzialità dei rispettivi ruoli, anche se la prima appare stilisticamente più sorvegliata. Meglio di qualunque solista, comunque, ha fatto il coro: quello del Teatro Municipale di Piacenza, istruito da Corrado Casati, rappresenta una garanzia ed è stato – con le coreografie – l'altro grande punto di forza dello spettacolo.

Paolo Patrizi

23/10/2024

La foto del servizio è di Binci.