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Otto personaggi in cerca di Händel: Giulio Cesare in scena a Lubiana in uno spettacolo dell'Opera di Fiume

Se è vero che barocco – nel teatro d'opera come nella poesia e nelle arti figurative – vuol dire in primo luogo artificio e finzione, c'è un elemento altrettanto importante che non sempre i registi sanno restituire: quel gioco di specchi che si crea tra il ritrarre un mondo assai più immaginifico di quello reale e la sua percezione da parte del pubblico. Il rapporto osmotico tra “rappresentazione” e “impressione”, insomma. È un aspetto, quest'ultimo, non sfuggito a Marin Blaževic: regista e teorico teatrale di punta in area ex iugoslava, al momento non sdoganato dalla sonnacchiosa critica italiana, ma i cui spettacoli rappresenterebbero una salutare iniezione di antiprovincialismo per i nostri teatri. Proveniente dall'Opera di Fiume (di cui è sovrintendente), questo suo Giulio Cesare di Händel è ora approdato a Lubiana, purtroppo non nel bellissimo teatro ottocentesco cittadino, ma nel mastodontico centro congressi – un esempio di grandeur architettonica degli ultimi anni del Maresciallo Tito – conosciuto nella capitale slovena come Cankarjev Dom.

In che senso questo spettacolo crea, come si diceva, la giusta compenetrazione tra macchina barocca e sollecitazioni per la sua ricezione? Né calligraficamente egizio-romano, né riportato a un generico diciottesimo secolo di età haendeliana, il Giulio Cesare raccontato da Blaževic e dal suo drammaturgo Oliver Frljic gioca la carta diacronica e metateatrale: un work in progress dove il primo atto mostra un palcoscenico seminudo e ancora in allestimento, con gli interpreti in abiti quotidiani che cantano a leggio, ciascuno poco interessato al lavoro dell'altro (un ironico riferimento alla natura “a compartimenti stagni” del melodramma barocco, con il suo andamento paratattico di arie?) e intento chi a sbucciare una banana, chi a consultare il telefonino, chi a flirtare con una collega. Insomma, un Giulio Cesare in prova: e che l'unico oggetto di scena sia uno scheletro – poi si trasformerà in appendiabiti del regista-demiurgo – è prova eloquente di come, al momento, dell'opera abbiamo solo l'ossatura. Dal secondo atto inizia lo spettacolo “vero”: gli interpreti indossano costumi (ma sono abiti senza tempo, a toga e peplum si alternano tute e cravatte), il palcoscenico si arricchisce di qualche elemento (pochi comunque, e con significato più di “segni” che di arredamento: resti di colonne, una testa di cavallo, un ingranaggio a ruota…). Ormai si è entrati nel vivo della finzione, e la meraviglia barocca può fare il suo corso. Solo al momento del congedo si riaffaccia la prosaicità del reale, con i cantanti che dismettono gli abiti di scena per insaccarsi in gigantesche buste dell'immondizia. Cesare e Cleopatra, Cornelia e Tolomeo possono essere rottamati: si torna alla spazzatura del quotidiano.

Il cast mostra un'adesione totale all'impianto creato da Blaževic, che d'altronde è solito – prima ancora delle prove – impostare un lungo workshop con i suoi interpreti: anche i meno talentati s'inseriscono perfettamente nello spettacolo. Tra quelli di talento sicuro, comunque, c'è in primo luogo la protagonista Diana Haller: mezzosoprano che gioca le carte migliori nella vivida luminosità del registro superiore, plastica nella modanatura dei recitativi, a suo agio nello stile galante e salottiero (un'aria “di paragone” come Va tacito e nascosto trova in lei perfetta aderenza psicologico-stilistica) come nei momenti di più rutilante affondo virtuosistico (risolti con un aplomb che non ha mai nulla di dimostrativo). E piace il contrasto tra la radiosa femminilità sfoggiata nel primo atto, quando la Haller veste ancora i propri panni, e il Cesare virilmente barbuto in cui si trasforma nel prosieguo. Con uno strumento di maggior brunitura e compattezza le tiene testa l'altro mezzosoprano, Ivana Srbljan: una Cornelia di bellezza forse più moderna, finché si tratta di essere se stessa, e che poi si trasforma in un'inquietante maschera da vedova nera settecentesca. Un gradino al di sotto, si fa valere poi Annamarija Knego: Cleopatra a suo agio nelle oasi liriche piuttosto che nelle pagine spiccatamente belcantistiche, che incarna la maliarda regina d'Egitto con il viatico di una fisicità ironicamente sensuale, da panterona paffuta. E se timbricamente Sonja Runje non è un Tolomeo troppo personale, come artista è la più singolare di tutte: una cantante-atleta, specializzata in danza acrobatica su corde di seta, capace di sostenere alla perfezione il suono nelle più funamboliche posizioni. Le sue qualità coreutiche, com'è ovvio, vengono valorizzate dal regista: ed è davvero impressionante, sotto questo profilo, la grande aria del secondo atto.

Marko Fortunato difende con correttezza la scelta di un Sesto in chiave di tenore, l'Achilla di Dario Bercich – troppo chiaro e leggero per questo ruolo bassobaritonale – è l'anello debole della catena e forse non è un caso che la sua parte venga sforbiciatissima (all'interno di un'edizione che di tagli, complessivamente, ne fa pochi). Anche loro appaiono scenicamente assai a fuoco, e così i pure comprimari: il Curio di Slavko Sekulic (voce di basso profondo da riascoltare in cimenti più significativi) e Olga Kaminska, che trasforma l'ancillare ed effeminato ruolo di Nireno, confidente di Cleopatra, in una biondissima e mattatoriale deuteragonista. Tutti ottimamente supportati da Ville Matvejeff: non uno specialista del barocco, ma una bacchetta eclettica – è lui il direttore stabile all'Opera di Fiume – che restituisce la tavolozza timbrica haendeliana con rigogliosa varietà dinamica e un accompagnamento al cembalo mai di routine.

Paolo Patrizi

24/3/2017

La foto del servizio è di Drazen Sokcevic.