Barcellona
Il primo Orfeo di Gluck
In forma di concerto al Palau de la Música abbiamo avuto una ripresa, o ricreazione, dell'Orfeo ed Euridice di De Calzabigi-Gluck, nella sua prima edizione in italiano a Vienna dal 1762. Si sa che le differenze con la versione di Parigi (tra l'altro per tenore) di dodici anni dopo sono parecchie, e quindi è stata una bella occasione di confronto tra quella appena data alla Scala con Mariotti e Flórez e questa che propongono I Barocchisti diretti da Andrea Marchiol con Philippe Jaroussky nei panni del mitico poeta.
Molto più stringata (80 minuti senza pausa) ed essenziale, molto più concertistica e addirittura statica o, come dice il programma di sala firmato da Mercedes Conde, ritorno alle origini, e cioè al modello delle feste teatrali pensate come intrattenimenti di corte.
Il fatto è che in effetti, non solo per il nome che porta la compagine, sembrava di essere nel mondo barocco senza troppi abbellimenti e senza tante arie e da capo con variazioni liberissime e fantastiche. Ma la direzione di Marchiol colpiva soprattutto, e piaccia a ognuno la versione che preferisce perfino, orrore, quel rifacimento berlioziano del 1859 per mezzosoprano... che però serviva a mantenere il titolo in repertorio per la narrazione continua, un flusso dov'era difficile (e poco necessario) distinguire fra recitativi e arie. Forse il secondo atto, dal punto di vista del suono orchestrale, era meno bello degli altri, ma pure qui si tratta di qualcosa di pura opinione. Bravissimi i professori e le indicazioni del maestro e colossale lo sforzo del coro da camera della casa che era per me con tanto di perdono della star e dei suoi accaniti sostenitori il punto di canto più alto in tutta la serata.
Brava Emöke Barath nel ruolo di Amore, con solo un'aria, la bellissima dell'atto primo Gli sguardi trattieni, e molto di più della solita soubrette. Ancora più brava l'Euridice di Chantal Santon, forse di figura non ideale ma come voce la più importante in quanto a volume e colori: la sua non lunga parte (duetto, terzetto finale, recitativi e la magnifica aria Che fiero momento) metteva in rilievo qualità che potranno forse essere ancora più utili in altri repertori.
La serata non sarebbe stata possibile senza Philippe Jaroussky un pienone, anche se non il tutto esaurito. Un controtenore musicale, simpatico, di voce luminosa e delicata. Ma il castrato che sosteneva la parte era un alto e Jaroussky non lo é... I momenti più belli (Che puro ciel è stato una meraviglia) erano quelli pochi di pace e di felicità. Ogni volta che recitativi e arie insistevano in centro e gravi, per esempio, le tante ombre infernali o quella della sposa perduta la musicalità c'era, il colore e il peso no. Che farò senza Euridice era sì una lezione di canto ma non un lamento: i vari Che farò? Dove andrò? si possono aggirare così come si può spostare l'emissione in alto grande tecnica, voce intatta, nessuno sforzo ma non hanno dato mai per il sottoscritto, insisto la dimensione di angoscia e dolori.
Per età e gusti preferisco naturalmente un vero mezzosoprano o anche contralto per la parte, ma trattandosi di controtenori (che oggi vanno per la maggiore e guai a chi li tocca) direi che voci come quelle di Fagioli o Mehta sarebbero state più adatte alla parte. Fermo restando che forse la soluzione migliore è la versione di Parigi per tenore, se si ha il tenore. Molta attenzione e silenzio, tranne l'inevitabile telefonino, l'inevitabile signora che lascia cadere per terra la sua borsetta in un momento algido fine del primo atto o il signore che entra ed esce dal palco accanto come se di casa sua si trattasse. Grandi ovazioni, signora e signore compresi, telefonini attivati per fare la foto ormai d'obbligo.
Jorge Binaghi
9/6/2018
La foto del servizio è di Antoni Bofill.
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