Chi attende, spera
La si ami o no come definizione, quella di teatro dell'assurdo non è una semplice etichetta, indicante una situazione drammatica non narrativa, tesa non a veicolare tesi, ma a riproporre la frammentarietà dell'esistenza, le sue contraddizioni, il suo spesso apparente non senso; definire dell'assurdo un certo tipo di teatro significa ricondurlo alla sua precipua matrice filosofica, a quell'esistenzialismo che per primo e più esaurientemente ha sviscerato l'assurdo su cui si regge l'esistenza umana. Gettato in un mondo di enti, per dirla con Heidegger che sempre rifiutò l'etichetta di esistenzialista per il suo Sein und Zeit, ma che tuttavia all'esistenzialismo fornì la sua più rigorosa e sconsolante analitica, l'uomo, in quanto essere-per la morte, ha di fronte a sé poche alternative: rifugiarsi nel trascendente, sostituendo la fede alla ragione, e dunque rimandando la soluzione del perché della sua esistenza a dopo la morte, banalizzarsi nella chiacchiera, forma di non comunicazione per eccellenza, dove il linguaggio ha l'unico scopo di veicolare ovvietà, oppure accettare l'idea di una esistenza il cui fine è la morte, dunque il nulla, ma che va comunque vissuta come se dopo ci fosse qualcos'altro, pur sapendo che nulla c'è. Opera teatrale dal titolo enigmatico, allusivo, Aspettando Godot è un testo molto stratificato, pur nella sua apparente semplicità linguistica: innanzitutto, chi è Godot? O piuttosto, cosa è? Perché fa differenza: intendendolo come un chi, si potrebbe agevolmente pensare a Dio (god in inglese), cosa del resto avvalorata dai numerosi rimandi neotestamentari presenti nel primo atto. Pensandolo come un cosa, l'ambito dell'interpretazione si allarga, e gli echi dell'intertestualità echiana possono aver modo di sbizzarrirsi: in tal senso Godot potrebbe essere il senso riposto di ogni cosa, l'illusione leopardiana dell'anno nuovo, o la montaliana maglia rotta che salva l'uomo dal viluppo esistenziale che lo imprigiona. Didi e Gogo, nel paesaggio desolato dominato da un albero secco, parlano, parlano, ma di fatto comunicano poco: continuamente, appena stanno per dire realmente qualcosa, la banalità del quotidiano li sommerge, ora con le scarpe rotte, ora con il continuo Che facciamo?, ora con una carota, ora con un cappello. Hanno sempre bisogno di un'occasione per continuare la loro attesa, un'occasione magari ancora più assurda del loro attendere: ed ecco Pozzo e Lucky, l'uomo e lo schiavo, l'essere dalle onnicomprensive e stolide certezze e la bestia da soma, che pensa su ordinazione, snocciolando tiritere rimasticate. Trascorre una notte, nell'attesa di un domani che forse condurrà Godot, e tutto cambia: l'albero rinverdisce e Pozzo diventa cieco, cieco come ogni uomo dalle troppe, e troppo solide certezze.
In un'ora si possono provare le pene dell'inferno: il tempo è più che sufficiente, ammoniva Wittgenstein. In un'ora, in un giorno, tutto può cambiare, ciò che non cambia è la condizione umana, l'attesa di qualcosa (o di qualcuno) che dia un senso al non senso della vita, che salvi l'uomo, in un modo o in un altro.
Recitare Aspettando Godot non è facile: si può calcare sull'aspetto metafisico, impostando la recitazione su un gelido straniamento che di fatto annulla la profonda umanità dei due vagabondi; si può optare per un naturalismo di fondo, che magari ipertrofizzi gli spunti comici. In entrambi i casi manca l'equilibrio, il profondo equilibrio che Maurizio Scaparro è riuscito a salvare nell'edizione del capolavoro beckettiano andato in scena al Verga di Catania il 10 marzo. La scena spoglia, dominata da un albero poco ingombrante, stilizzato e dalla sagoma contorta, le luci nette, ponevano in assoluto primo piano il dialogo fra Didi e Gogo, umanissimi nel loro profondo sconforto, nella loro incerta attesa: Antonio Salines, Estragone, e Luciano Virgilio, Vladimiro, hanno reso poetici i due vagabondi, sfrondandoli di ogni intellettualismo. Due ometti disadorni, indifesi dinanzi alle intemperie dell'esistenza, che riannodano momento per momento le fila della loro povera vita, ma non privi di dignità, pur nell'illusione di un'attesa che non finirà mai. Edoardo Siravo, Pozzo, sembrava a tratti un demone, più spesso un buon diavolo, impregnata com'era la sua recitazione di un'ambiguità certamente voluta, che faceva del suo personaggio una creatura strana, altra, ora dominante ora dominata, mai assolutamente umana e mai assolutamente demoniaca. Enrico Bonavera, Lucky, si è slanciato con tecnica perfetta nel suo monologo da pensatore, affidando per il resto ad una pregnante plasticità di movenze il suo personaggio.
Una compagnia egregia, tutta di primi attori, dalla dizione perfetta, che ha permesso di non perdere nemmeno una battuta di un testo così composito e stratificato, alla quale l'accorta regia di Scaparro ha impresso il ritmo giusto, senza mai consentire che il grottesco prendesse il sopravvento, metafisicizzando un testo che metafisico non è, e di converso evitando le secche del facile naturalismo, restituendo in tal modo al testo quella carica problematica che fa sì che ogni volta, rivedendolo, vi si scopra qualcosa di nuovo, di più profondo e di più attuale.
Giuliana Cutore
13/3/2015
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