Ballo in maschera (ma non è Verdi)
Opera o troppo passatista o troppo in anticipo sui propri tempi rispetto a quel 1901 in cui vide la luce, Le Maschere di Mascagni hanno subito il destino dei lavori “disallineati”: mai del tutto uscita di repertorio eppure mai entrata davvero nel cuore del pubblico, di volta in volta considerata operazione commerciale con ambizioni stilistiche o azzardo sperimentale aperto a concessioni popolari, troppo poco “mascagnana” per i cultori di Cavalleria rusticana e ancora troppo legata a moduli nazional-tradizionali per l'intellighenzia musicologica, resta a metà del guado lasciando lo spettatore sorridente ma non divertito, interessato ma non empatico; e fino all'ultimo con il dubbio se l'autore, con quest'opera, si sia preso troppo o troppo poco sul serio. Certo: il pervasivo – e, sulla distanza, controproducente – battage pubblicitario con cui l'editore Sonzogno pompò Le Maschere (sei contemporanee “prime” in altrettanti teatri italiani), nonché l'autoironica ma comunque megalomane dedica a se stesso che Mascagni appose alla partitura, farebbero propendere per la prima ipotesi. Tuttavia, la fertile ambiguità e vitale contraddittorietà che il compositore dissemina lungo i tre atti – grazie pure a un Luigi Illica al suo meglio quanto a sceneggiatura e versificazione – lasciano aperto l'interrogativo.
Il Teatro Goldoni di Livorno, complice il sempiterno amore dei labronici per il proprio genius loci e la strategica concomitanza del carnevale, ha tentato una riproposta delle Maschere in chiave di schietto divertimento e gioiosità ecumenica: collaborazione del Carnevale di Viareggio alla realizzazione dell'allestimento, tutti in maschera pubblico compreso, gran furlana finale con i solisti giù in platea trasformati in scatenati danzatori mentre, tra le poltrone, i bambini delle scuole cittadine intonano il coro. Ne sortisce un Mascagni quasi rossinizzato, dove ciò che resta eluso in termini di esercizio di stile (la vena ermeneutico-parodistica della partitura si perde, in questa cornice) viene surrogato da una sorgiva sbrigliatezza e un fanciullesco incantamento. La regia di Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi (autori anche della suggestiva scenografia in progress e dei vividi costumi) all'inizio non prende troppo bene le misure: l'idea di cominciare sulle note di un altro Mascagni – quello di Cavalleria, ovviamente – e poi di trasformarlo in una ben diversa opera come fosse appunto uno scherzo di carnevale è in sé ottima, ma la parabasi è tirata per le lunghe e lo spettacolo fatica un po' a decollare. Dal secondo atto, però, la macchina funziona a pieno regime e pure il rapporto tra palcoscenico e platea si carica della giusta elettricità: si potrà eccepire che la saporosità delle caratterizzazioni predomina sullo svisceramento dell'intreccio, e il soffio della farsa prevale sui graffi della satira (che d'altronde premeva a Illica, meno a Mascagni), ma questa è una precisa scelta di campo.
Anche la direzione di Mario Menicagli, ben corrisposto dall'orchestra e dal coro del Teatro Goldoni, sembra partire in sordina: paradossalmente è proprio la Sinfonia, ovvero l'unica pagina davvero nota dell'opera, il momento meno coinvolgente della sua lettura musicale. Offre invece una concertazione attenta a valorizzare i passaggi più melodici e paraveristi, quelli insomma dove Mascagni rifà se stesso anziché tentare azzardi mimetici (se ne avvantaggia soprattutto il ruolo del tenore), oltre che felicemente appiombata nei grandi insiemi: il frastagliatissimo concertato della polverina viene restituito in tutte le sue potenzialità di monumentale ingranaggio comico. E se qua e là si può lamentare qualche sforbiciata di troppo, va detto che non era uno spettacolo come questo – con l'obiettivo d'un diretto coinvolgimento di tutto il pubblico, a cominciare dai bambini – la sede più adatta per riproporre nella sua integralità una partitura così ampia e diseguale.
Il cast trova le voci più importanti in Matteo Falcier – un Florindo ora languido come uno squisito tenore di grazia, ora squillante come un fervido tenore lirico, a seconda delle necessità – e nella giovanissima Rachele Barchi, che di Colombina ha l'aspetto sbarazzino e paffutello, abbinato però (il contrasto sarebbe piaciuto a Mascagni) a una voce di fiati lunghissimi e formidabile densità timbrica, da riascoltare in cimenti drammatici e belcantistici. Notevoli pure i due baritoni: Min Kim è un cantante-attore nato, perfetto pure come dizione italiana, dall'emissione morbida rinvigorita da un colore scuro e compatto ideale per il miles gloriosus Capitan Spavento; mentre Massimo Cavalletti, impegnato anche nel ruolo solo recitato dell'impresario, sembra aver trovato nel repertorio comico la sua strada più autentica, mettendo la propria robustezza vocale al servizio di una vena parodistica: come dire, fatte le debite proporzioni, che il modello di Bastianini quando incise il monologo di Tartaglia è stato felicemente introiettato. Meno a fuoco la Rosaura di Silvia Pantani e penalizzato dall'articolazione piuttosto esotica (ma i mezzi sono notevoli) il Pantalone di Vladimir Alexandrovich. Giacomo Medici disbriga correttamente il defilato ruolo del Dottor Graziano, alias Balanzone, mentre per quanto riguarda i due tenori caratteristi il ruvido Brighella di Marco Miglietta è forse preferibile all'affettato Arlecchino di Didier Peri. Al di là delle punte di eccellenza, tutti i solisti sono comunque raccomandabilissimi per immedesimazione scenica e gioco di squadra. Ed è proprio “gioco” la parola-chiave per apprezzare questo spettacolo.
Paolo Patrizi
13/2/2023
La foto del servizio è di Trifiletti-Bizzi.
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