RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Prima italiana a Cagliari

dello Schiavo di Gomes

Ci ha messo centotrent'anni Lo Schiavo di Carlos Gomes (1836-1896) ad approdare finalmente su una scena italica? Resta il fatto che il nostro Paese ha trattato con fulgida xenofobia l'immigrato brasiliano Gomes, divenuto compositore italiano a tutti gli effetti. È pur vero che l'Italia appena ricompattata, faticosamente in cerca di un'unità anche culturale, non era l'ambiente più propizio dove mettere a dimora gli esuberanti talenti “esotici” del musicista di Campinas. E ciò a prescindere dal “gesuitismo” di un Giulio Ricordi nonché dalla mala penna di taluni critici sciagurati (Filippo Filippi per nominarne uno). Il sabotaggio della stupenda Maria Tudor alla Scala nel 1879 è flagrante al di là di ogni distinguo!

Il sontuoso Teatro Lirico di Cagliari, moderno tempio della vita musicale sarda, mette in cartellone e non da oggi titoli quanto più audaci per non dire temerari, che nel ricordo delle stagioni recenti si affollano. Da Dalibor di Smetana a OEdipe di Enescu, da Hans Heiling di Marschner a Semyon Kotko di Prokofiev, da Turandot di Busoni a La Campana sommersa di Respighi, da Euryanthe di Weber a La Pietra del paragone di Rossini, da Alfonso und Estrella di Schubert a Napoli milionaria di Nino Rota, per limitarci a questi. Di audacia in audacia, la stagione 2020 si inaugurerà con Palla de' Mozzi di Gino Marinuzzi (1882-1945). La Scala, in cui quest'opera venne alla luce nel 1932, non ha al momento idee più luminose di quella di far entrare i sauditi con i loro petrodollari nel proprio CDA!

Al gomesiano Schiavo è toccato addirittura l'onore di inaugurare la stagione cagliaritana 2019: prima italiana di quest'opera, amata ed eseguita in Brasile, dove ebbe il battesimo della scena a Rio de Janeiro nel 1889 sotto la direzione del compositore. Per circostanze varie Lo Schiavo aveva mancato l'approdo del Teatro Comunale di Bologna. In Europa non lo si è ascoltato che in forma oratoriale a Londra nel 1978, sotto gli auspici della Donizetti Society, esecuzione a cui ha fatto seguito nel 2011 l'allestimento tedesco allo Stadttheater di Giessen (mentre di un'edizione svizzera a Berna risalente agli anni Settanta c'è solo un riferimento incerto).

Il libretto in quattro atti di Rodolfo Paravicini è attinto a fonti varie e disparate: tra un dramma di Dumas figlio ambientato nella remota Russia, memorie amazzoniche di Alfredo D'Escragnolle Taunay ed un poema epico di storia brasiliana di José Gonçalves. Arretrare l'epoca al XVI secolo ne rende in parte anacronistica l'azione, con quella contessa francese libertaria da salotto e paternalista, che, attorniata da un gruppo di nobili impeccabilmente eleganti, proclama la liberazione degli schiavi indigeni (ben più d'attualità nell'Ottocento però degli afroamericani), richiamandosi all'Ammiraglio ugonotto Coligny, cioè ad una delle vittime più illustri del massacro di San Bartolomeo (e poi si lava le mani). Ma Paravicini è abbastanza stringato, con versi non sempre disdicevoli anzi in più punti espressivi, di cui si impadronisce ispirato il compositore. Con Lo Schiavo Gomes ritorna a un soggetto brasiliano, dopo lo straripante Guarany (1870), ma Lo Schiavo è sostanzialmente un'opera italiana pur con un suggestivo retrogusto brasiliano tra i fili dell'ordito. Gomes affascina con le maliose melodie e la strumentazione fantasiosa e raffinata, avendo come riferimenti non servili il grand opéra, il primo Massenet, il tardo Verdi e Ponchielli (quello dei Lituani per intendersi). La vicenda è imperniata sull'ennesimo triangolo tenore-soprano-baritono, che vede lo schiavo indigeno Iberè coniugato a forza alla compagna di sventura Ilàra, la quale ama invece riamata Americo, figlio dell'invasore portoghese Conte Rodrigo, contrario quest'ultimo, si capisce, alla love story del rampollo. Rodrigo, personaggio secondario ma essenziale, è uno dei tanti padri odiosi e antipatici della progenie del Conte di Walter, del Marchese di Calatrava e dello stesso Giorgio Germont. E, poiché parliamo di Gomes, includiamo anche il Duca d'Arcos di Salvator Rosa. Sarà poi Iberè a rinunciare, a prezzo della sua vita, a Ilàra a favore di Americo. Quanto alla Contessa francese, ha già dovuto rassegnarsi furente, nel 2° atto, a perdere il concupito Americo, che per di più le preferisce un'ex schiava. La contessa è una lontana cugina, smaliziata e sofisticata, della candida Cecilia del Guarany, parentela che traspare nel canto di bravura, mentre Iberè riecheggia l'ardimentosa fierezza e la generosa lealtà di Pery, ma in chiave di baritono. Americo è il consueto tenore impetuoso, appassionato e alquanto ingenuo (per non dire stupido), alla stregua dei Manrico, Radames, Ruy Blas ed Enzo. Ilàra è personaggio passionale e ardente che “solidarizza” vocalmente e per temperamento con Leonora (della Forza) e Aida, ma anche con l'Isabella di Salvator Rosa.

Nove rappresentazioni, oltre all'anteprima e a due turni ridotti per ragazzi, hanno gremito la vasta sala del Lirico (che conta 1628 posti). Quest'edizione, prodotta in tandem con il Festival Amazonas de Ópera di Manaus, si è avvalsa di due cast.

Sulla scenografia di Tiziano Santi – fitta foresta amazzonica, in un intrico ombroso di alberi altissimi, liane e arbusti, di continuo vivacizzata dall'iridescente gioco di luci di Alessandro Verazzi, nel primo e nel terzo e quarto atto, mentre il secondo atto, a mo' di parentesi che esula, mostra la solatìa terrazza-salotto della contessa abbellita da due alberi simmetricamente conici – si dispiega la convincente regia, attenta nell'insieme e avveduta nel dettaglio, di Davide Garattini Raimondi, che gestisce efficacemente i movimenti di solisti e masse. Appropriati i costumi di Domenico Franchi, ben differenziati tra nobili, guardiani e aborigeni: il conte schiavista e i suoi scherani in nero plumbeo, in variopinti abbigliamenti sommari gli aborigeni schiavi o guerrieri. I guardiani dei colonizzatori portoghesi non sono meno disumani del loro staffile e chi non si piega fa la fine dei due impiccati appesi all'inizio dell'opera. Quanto a Gianfèra, homme à tout faire del Conte Rodrigo, che da ipocrita si vanta come preambolo: ‘troppo sensibile son io di cor… né so adoprar rigore', la sua “bontà” verrà mal ripagata, poiché nel 4° atto finisce sgozzato e… manducato. In mancanza delle danze del 2° atto (non di rado omesse), ci si deve accontentare delle sobrie coreografie di Luigia Frattaroli nella seconda metà dell'opera, che è anche più concentrata musicalmente ed è quella in cui i bellici furori degli aborigeni danno sfogo a feroce concitazione e appropriati inni di guerra.

Le redini della vigorosa orchestra del Teatro Lirico erano nelle esperte mani di John Neschling, che conosce come pochi Gomes, non soltanto perché è brasiliano (benché nell'intervista abbia dimenticato che non è Lo Schiavo l'ultima opera di Gomes, bensì Côndor [(Milano 1891]). L'abile conduzione dell'esecuzione, puntuale nel valorizzare le più sottili sfumature come gl'impeti della strumentazione gomesiana fin nella fascinosa Alborada dell'ultimo atto, che dipinge lo spuntare dell'alba nella foresta, si sarebbe giovata in taluni punti di sonorità più temperate anche a vantaggio delle voci. A sua volta il Coro della casa, diretto da Donato Sivo, ha fornito una ragguardevole prestazione.

Nei due cast si equivalevano quale Ilàra Svetla Vassileva nel primo e Diana Rosa Cárdenas nel secondo, più intensa la prima, più vibrante l'altra, entrambe smaglianti nell'aria del 3° atto ‘Oh ciel di Parahyba', replica superba a ‘O cieli azzurri'. Quanto alla seconda donna, alla Contessa di Elisa Balbo stava un po' stretta la tessitura acuta, in cui si è dimostrata più a suo agio Francesca Tassinari. Dei due Iberè, il baritono Andrea Borghini lo è stato appassionato, dolente fin nella lancinante rinuncia dell'epilogo tragico per lui, e non gli è rimasto troppo indietro il collega Rodolfo Giugliani. I due bassi dell'Estremo Oriente Dongho Kim e Shi Zong hanno prestato il loro grave sontuoso e minaccioso nonché la statuaria presenza al Conte Rodrigo. Resta il tenore, Americo. Massimiliano Pisapia, alquanto impacciato in scena, con un timbro “legnoso” è parso arretrato rispetto al più disinvolto, accattivante Lorenzo De Caro. Nel ruolo del bieco Gianfèra sia Daniele Terenzi che Gianni Giuga si sono resi, visto il trattamento finale, abbastanza… appetibili. Vale la pena di ricordare gli altri: Francesco Musinu, Marco Puggioni e Michelangelo Romero.

In preziosa continuità con la tradizione del melodramma ottocentesco, Lo Schiavo, che non è affatto passatista, ci dona il magnifico concertato dell'atto secondo ed il commosso terzetto che conclude l'opera.

Fulvio Stefano Lo Presti

9/3/2019