RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Metaletture faustiane à la russe

Il Faust di Gounod al Massimo di Palermo

Ventun marzo duemilaventicinque: prescindendo dal fatto che nella Germania luterana il calendario gregoriano entrò in vigore agli inizi del XVIII secolo e che quindi la data andrebbe posticipata di una decina di giorni, il 21/03/2025 i bachiani hanno festeggiato il trecentoquarantesimo compleanno del loro beniamino. Ascoltare in questa data il Faust di Gounod può quindi collocarsi simbolicamente al crocevia delle culture francese e tedesca: non tanto perché la sintesi dei due potrebbe essere la fin troppo famosa Ave Maria di Bach-Gounod – branetto fin troppo famoso e incluso in tutte le antologie di classica a poco prezzo, che per quanto gradevole non rende giustizia né all'uno né all'altro –, quanto perché la vena teatrale di Gounod ha modo di esprimersi al meglio confrontandosi con l'equivalente letterario tedesco del Clavicembalo di Bach: il Faust di Goethe.

La versione musicata da Gounod, sfrondata, rielaborata e melodrammatizzata da Jules Barbier e Michel Carré – per quanto il contributo di quest'ultimo sia stato piuttosto esiguo –, si limita al Faust I, come la maggior parte delle altre versioni teatrali, dove si può ricavare una trama che stia in piedi e una love story adatta al palcoscenico. Ma il nucleo dello Streben faustiano, del superamento fichtiano di se stessi, del patto col diavolo e della vicenda terrena di Gretchen, quelli rimangono: tematiche a loro modo ineludibili e intramontabili, riprese… a più riprese da scrittori e pensatori fin dalla fine del Cinquecento – Goethe non fu né il primo né l'ultimo: Michail Bulgakov, ad esempio, traspose a modo suo il mito tedesco nel Maestro e Margherita.

L'accostamento tra Gounod e Bulgakov non deve stupire. Lo scrittore russo conosceva a memoria diversi passi dell'opera, sia nell'originale francese, sia nella traduzione di Kalashnikov. Pare perciò perfettamente centrata la lettura registica che Fabio Ceresa propone per il nuovo allestimento del Teatro Massimo di Palermo. Numerosi sono infatti i parallelismi che Ceresa instaura tra opera e romanzo; parallelismi, non sovrapposizioni: ché alla manifesta antipatia, al manifesto rigetto da parte dello scrivente per quelle regie che sfruttano l'opera per dire la loro con un contenuto del tutto slegato dal portato del côté lirico-drammaturgico, qui si assiste alla perfetta e funzionale compenetrazione del piano diegetico dell'opera e di quello extradiegetico, extramusicale del romanzo : chi non coglie i riferimenti al libro, può seguire senza impedimenti la trama, che non viene compromessa. Chi li coglie, gode di un valore aggiunto non da poco. D'altronde, anche il libro stesso si svolge su due piani paralleli…

L'azione è trasposta all'epoca del romanzo: la Mosca degli anni Trenta: i costumi di Giuseppe Palella, altamente evocativi, ricreano fedelmente l'ambientazione, e basta visionare un archivio di foto storiche per farsene un'idea. Costumi d'eccezione, naturalmente, per Méphistophélès/Woland, in un rosso che da un lato ricorda la cappa di Mastro Titta, dall'altro il Gessler del Tell scaligero di Chiara Muti. Curioso che il rosso informi al quarto atto anche la porpora cardinalizia degli aiutanti di Woland, verosimilmente Azazello e Fagotto, e l'abito e il velo di una suora, forse la strega Hella (curioso anche che le figure del clero appaiano con gli abiti del male: e il rosso si veste di comunismo). Irrinunciabile il gatto occhialuto e antropomorfo Behemot, che circola sulle scene per tutti e cinque gli atti (a proposito: si è optato qui non per la versione originale, che debuttò a Parigi il 19/03/1859 in forma di opéra-comique, ma per quella coi recitativi cantati, senza il balletto al quinto atto e con tagli sparsi, più abbondanti dal terzo atto in avanti). Sullo sfondo, illuminati all'uopo dalle luci di Giuseppe Di Iorio, che lungo la recita contribuiscono validamente e a sottolineare i vari coup de théâtre, dei tableaux vivants portano avanti quello che nel libro è il romanzo su Cristo scritto dal Maestro: scene come la deposizione dalla croce all'inizio del quarto atto e rappresentazioni mariane di Marguerite con aureola e veste blu si intrecciano alla ricostruzione del Prologo in cielo di Goethe, con Dio e Méphistophélès che dialogano attorno a un lavacro, nel quale Dio si lava le mani (e il romanzo del Maestro narra i fatti dal punto di vista di Pilato…) . Non facciamoci mancare quadranti di orologio durante la kermesse del secondo atto, con le lancette ostinatamente fisse sulle ore tre ma non tutti, qualcuno sulle tre e qualche minuto, e che non avanzano lungo l'atto – la cattura, il fermoimmagine dell'istante, niente di più faustiano (ma al quinto l'orologio torna senza più lancette: il tempo dell'eternità): se ne ricorderanno Auden e Stravinskij quando nel Rake's progress, altra trasposizione del Faust, il tempo non solo lo fermeranno, ma lo faranno tornare indietro: nella regia di McVicar campeggiava infatti un grande orologio. E chi poteva essere Faust se non il Maestro stesso, scrittore in crisi come nel romanzo, che anziché su muffi volumi polverosi e pozioni fumanti si affanna sui tasti di una macchina per scrivere, sul traballante tavolino di una camera spoglia, una branda per giaciglio, posaceneri pieni e bottiglie vuote un po' dappertutto, molto alla Raymond Carver? Le cose migliorano con l'arrivo di Méphistophélès, che lo lancia nel mondo della giovinezza con tanto di servizio di tricotomia e pogonotomia propiziatorie…

S'è parlato dello studio di Faust. Il merito va alle scene di Tiziano Santi, che, ottemperando alla lettura/metalettura di Ceresa, disegna da un lato ambienti fisici concreti, come appunto lo studio di Faust o la camera di Margherita, modestamente arredata, un divano e poco più, alla luce calda e tenue di abat-jour e paralumi, dall'altro meta-luoghi, più astratti: la stazione ferroviaria, più allusa che rappresentata, con un modellino di treno in scena e Méphistophélès vestito da capostazione e la panchina immortalata dal romanzo, dove si siede Valentin – addobbato di icone e quadretti e che al posto delle spade a croce, oppone al diavolo una Bibbia di cui questo si beffa –, o la chiesa, resa con canne d'organo sullo sfondo, forse un po' didascaliche. Il tutto riquadrato da tre severe cornici concentriche, di colore neutro, en pendent con due paratie mobili che aprendosi e chiudendosi organizzano con semplicità lo spazio sulla scena.

Simile regia, che si avvale del supporto e dei movimenti coreografici di Mattia Agatiello, è a supporto di una resa musicale di tutto rispetto, in primis grazie a Frédéric Chaslin, che da pianista, organista e compositore, oltre che da direttore, guida l'Orchestra del Massimo di Palermo, sugli scudi per pulizia di suono, in una concertazione efficiente, con un ottimo bilanciamento delle masse sonore a favore di voci e palcoscenico, senza per questo sminuire il lavoro della buca. La direzione entusiasta, coinvolgente, sostenuta e partecipe sul versante orchestrale contribuisce a un'esperienza di ascolto immersiva ad alto impatto emozionale, tra un valzer gagliardo e una marcia risoluta. E pazienza se non brilla per messa in rilievo di dettagli strumentali; più attento alla resa globale, sembra badare più alla funzionalità dello spettacolo, e d'altronde dirige un'opera e non una sinfonia.

Il Coro della Casa è un altro caposaldo di questa produzione, amalgamato e istruito da Salvatore Punturo, che si fa notare anche negli interventi fuori scena. Oltre che per la qualità vocale, si apprezza anche per la spontaneità e l'autonomia della recitazione nelle scene d'assieme, come al secondo atto, risultando non un'unica massa uniforme di persone, ma un insieme differenziato di individui.

Punto forte è però il cast, la cui analisi è riferita alla recita, come si diceva, di venerdì 21 marzo 2025. Splendidamente assortito e attestato su un alto livello, esso splende per la presenza di Ivan Ayón Rivas, tenore che nel rôle titre brilla per smalto vocale, squillo pronto, robusto, generoso, e grande pathos soprattutto nelle scene di maggior concitazione, dove mette in evidenza con pregnanza drammatica il rovello interiore del personaggio. Gli acuti sono stentorei e senza sforzi, la voce, ben proiettata, è lirica e calda – scurita rispetto a qualche anno fa e più strutturata – e la recitazione naturale e partecipe – d'impatto come si slancia ad esempio verso Valentin appena ferito dal suo revolver, quasi a dire “io non volevo” –; meno efficace, sebbene comunque nel complesso ben reso, è il lato più sentimentale del personaggio, quello più languoroso. Così, a fronte di un primo atto eroico e disperato, o del lungo duetto d'amore che conclude il terzo, con un acuto svettante veramente magistrale, la più celebre Salut! demeure chaste et pure emana il fascino di mezze voci sfruttate a dovere, di una tecnica sapiente ma di uno spirito non del tutto conforme a quello del brano.

Mattatore della serata (sarà forse il fascino del male…), è il Méphistophélès di Erwin Schrott. Disinvolto sulla scena, sarcastico e pungente, Schrott convince su tutta la linea, non solo sul piano attoriale, ma anche e soprattutto su quello vocale: uno strumento agile, brunito, timbrato, a tratti sferzante, con centri solidi ma che non teme né gli affondi al grave, né le salite all'acuto, qualità grazie alle quali trasforma la famosa ronda del vitello d'oro, Le veau d'or, in un capolavoro di sfrontata sicumera e di rigetto della moralità. Eccolo poi duettare con Marthe al telefono, oggetto feticcio nel libro come nella nostra contemporaneità, o farsi ancor più caustico in Souviens-toi du passé o atteggiarsi a showman in Vous qui faites l'endormie, microfono alla mano e sgargiante marsina cremisi. Un Méphistophélès insomma dove tentazione e malia prevalgono sul demoniaco, che pure traspare lampante da ogni dove, in una parola: irresistibile.

Rivelazione del terzetto principale è però Federica Guida nel ruolo di Marguerite. Terzo e quarto atto sono dominati dal suo carisma di donna, vittima e carnefice, sviluppato ben oltre quello della timida ragazzotta al primo approccio dell'esordio. La melodiosa ricchezza espressiva della sua gola inizia a dipanarsi, come il suo filo, all'arcolaio, nella lunga canzone del re di Thule, e procede con morbida flessuosità nei duetti con Marthe e Méphistophélès. Ma è in quello con Faust, Il se fait tard, e più ancora nella scena a inizio quarto atto, Il ne revient pas!, che le sue qualità emergono al meglio, nella limpida schiettezza del timbro, nell'esuberanza dei solidi acuti e nella pregnanza perspicua del fraseggio, sempre aderente al significato del testo.

Interessante è anche la resa di Siebel, personaggio che alla stregua della Micaëla di Bizet o della Liù pucciniana non figura nella fonte letteraria, ma è creazione dei librettisti. Con l'immancabile tascapane, coppola e tenuta da studente, poeta che anziché i fiori vede appassire fra le sue mani fogli di carta, probabili lettere d'amore strappate da Méphistophélès e accoliti, Anna Pennisi fornisce col suo Siebel l'indispensabile contraltare di leggerezza e patetismo esente da tragicità, grazie a una prestazione scenica inventiva, mobile e varia; musicalmente, poi, si fa notare per un organo intenso, pastoso e duttile, dosato con intelligenza, che si traduce, una su tutte, in una pregevole Faites-lui mes aveux; peccato per i tagli che hanno ridotto il suo ruolo, dettati forse da esigenze di durata dello spettacolo, già di per sé cospicua (la scena e romanza Si le bonheur del quarto non è stata né eseguita, né stampata).

Voce meno prestante, in contrasto con un physique du rôle da corazziere, quella di Andrew Hamilton, che col suo Valentin è al debutto. Prestazione valida nelle intenzioni e nella scansione delle sillabe, ancorché poco personale e non molto incisiva a motivo di un timbro un poco pallido, riesce a trasmettere però l'idea di un fratello accorato e malinconico, esemplato in una ben cesellata Ô sainte médaille e in un'altrettanta ben riuscita Avant de quitter ces lieux, piuttosto che il furente maledittore del quarto atto.

Di qualità anche il comprimariato, che in Daniele Muratori Caputo (Wagner) e Natalia Gavrilan (Marthe) trovano sicuri e persuasivi interpreti. Strano perciò che, a fronte di un giudizio ampiamente positivo su pressoché tutta la recita, gli applausi di un Massimo quasi al completo siano stati piuttosto tiepidi.

Christian Speranza

23/3/2025

Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo.