OLTRE IL CARNEVALE
L'ombra della quaresima si protende quasi sempre sul carnevale, il lazzo e la burla rinviano – non allontanano – i plumbei conti del futuro. Sul Giovedì grasso di Donizetti, invece, il fantasma del domani è lungi dal guastare la festa: la farsa reclama i suoi diritti di zona franca, il girotondo degli equivoci apre solo a un inequivocabile lieto fine. Forse anche perché, tra tante risate, a restar periferica è proprio l'ambientazione carnascialesca: la macchina degli equivoci procede in un gioco di mascherate felicemente archetipico e non sarebbe stata gran differenza se Domenico Gilardoni avesse ambientato il suo libretto alla vigilia di Natale, o in una notte di mezza estate. Psicologismi e mezzi toni, insomma, sembrerebbero banditi da questa lunga “farsa in un atto” (nelle sporadiche riprese degli anni Sessanta e Settanta Il giovedì grasso fu abbinato ad altri titoli per la sua sedicente brevità, ma eseguito integralmente e con l'aggiunta di pagine alternative composte in un secondo momento, come è avvenuto ora al Teatro delle Muse di Ancona, fa serata da solo); e tuttavia, quanto esce dalla porta del libretto rientra dalla finestra della musica.
Donizetti – un Donizetti annata 1829, che ancora non ha composto alcuno dei suoi capolavori ma ha già alle spalle due esiti notevolissimi nel repertorio buffo come L'ajo nell'imbarazzo e Le convenienze e inconvenienze teatrali – si conferma ancora una volta grande sperimentatore senza bisogno di salire in cattedra: catapulta l'ascoltatore in media res con un articolatissimo quintetto che la grammatica operistica dell'epoca non avrebbe mai collocato ad alzar di sipario; gioca con gli stilemi della farsa vernacolare (in napoletano, ovviamente) e di quella “in lingua” non giustapponendoli, ma addivenendo a una metadrammaturgia che fonde le stilizzazioni dell'una con il realismo comico dell'altra; relega il tenore “amoroso” a comprimario e riserva al soprano puri momenti di mezzo carattere quando è a tu per tu con lui, salvo affidarle gran musica da opera seria quando duetta con lo spasimante non ricambiato, qui promosso a tenore-mattatore. E, così facendo, anticipa la ricetta che porterà alla perfezione con L'elisir d'amore: mettere il melodramma romantico al servizio dell'opera buffa.
Tale stratificazione di componenti è stata ben risolta nello spettacolo anconetano. Alla guida dell'Orchestra Sinfonica “G. Rossini”, Sebastiano Rolli si dimostra concertatore attento e narratore scorrevole: i vari numeri dell'opera si dipanano con fluidità mentre il tessuto connettivo dei recitativi resta perfettamente a fuoco; e anche il plurilinguismo della partitura – dalla vocalità ornata a quella legata, dalla cantabilità “seria” del padre severo al cantar parlando della coppia comica dei servi – viene amministrato con l'appiombata puntualità del direttore-vocalista. È un lavoro di “regia canora”, quello di Rolli, che deve aver giovato pure alla regia tout court di Francesco Bellotto, che si è così trovato ad avere interpreti talmente compenetrati sul piano del fraseggio da essere, già per ciò stesso, ottimi attori. L'esito visivo è poi propiziato dall'impianto scenico di Lucio Diana: la hall di un alberghetto che non avrà il respiro del fatidico “gente che va, gente che viene” di Grand Hotel, ma resta pur sempre un microcosmo acconcio per raccontare quel gran teatro del mondo cui guarda il Donizetti buffo.
Tutto si svolge al proscenio: cosa che consente di ovviare a un palcoscenico troppo grande (quale sarebbe quello delle Muse) per questa “farsa da camera”; di creare un rapporto più confidenziale – quasi da caffè concerto – tra artisti e pubblico; e di portare l'orchestra (occultata dietro dei pannelli) sul palco alle spalle dei cantanti, anziché in buca, obbedendo ai criteri di distanziamento imposti dai nostri tempi. Per il resto, Bellotto ripone il suo pedigree di regista filologo e storicista: il profumo del vaudeville francese (alla radice dell'opera c'è Scribe, a sua volta filtrato dal Molière di Monsieur de Pourceaugnac) cede il passo ad aromi di altre epoche e latitudini, la napoletanità di molti passaggi del libretto diventa totalizzante, si cerca un immaginario condiviso che ondeggia tra il rivistaiolo e la pochade cinematografica, Totò e Nino Taranto, Mario Mattoli e Sergio Corbucci. D'altronde, se il giovane Donizetti del Giovedì grasso è l'estremo avamposto di un'opera buffa ancora settecentesca nelle sue radici, perché non rievocarlo attraverso quelli che sono, in fondo, gli ultimi fotogrammi della cultura farsesca?
Per vitalità e simpatia, gli otto personaggi – che la regia, facendo lievitare la sarabanda degli insiemi, aumenta a dieci con l'aggiunta di una pianista e un cameriere muto – sembrano uscire proprio da quelle pellicole. David Astorga è tenore cicciottello come usava ieri ma anche tenore-attore come si vuole oggi: l'ideale per un personaggio di gabbato trasformato in gabbatore. S'ingegna, in una parte che Donizetti scrisse per Rubini, di ricostruire quell'irripetibile fonazione ottocentesca che fondeva emissione di petto e di testa: ne scaturisce, tra qualche artificiosità e sparse nasalità, un “suono misto” che riecheggia non tanto i grandi modelli del genere (oggi il solo John Osborn), quanto certi tenori contraltini minori del dopoguerra, ma oggi da riscoprire con attenzione, come Juan Oncina e Michel Sénéchal.
Simone Alberghini se la deve vedere con un ruolo scritto per Lablache e riadattato per Tamburini: lo fa affrontando entrambe le facce della medaglia, ossia cantando tanto la grande aria in napoletano scritta per il primo quanto la più forbita, ma altrettanto esilarante, tirata in lingua italiana che Donizetti approntò per il secondo. Esce brillantemente da entrambi i cimenti, dando l'impressione che, dopo una lunga carriera affrontata zigzagando senza eccessivo costrutto troppi ruoli e troppi repertori, proprio come buffo rampante abbia trovato la sua dimensione più autentica. Il classico “bene gli altri”, infine, non vuole essere riduttivo, quanto sancire la perifericità delle restanti dramatis personae rispetto alla coppia tenore versus buffo. Ma almeno l'imponenza – per colore non meno che per volume – del giovane basso Giorgi Manoshvili (truccato in modo di ricordare Samuel Ramey) e l'aplomb sentimentale del soprano Carolina Lippo lasciano anch'essi il segno.
Paolo Patrizi
1/9/2021
La foto del servizio è di Danilo Antolini e Claudio Penna.
|