RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Finzioni straussiane

Si intitola Finzioni una delle più celebri raccolte di racconti di Borges. Ma la definizione di «universo onirico e lievemente delirante» che ne dà Giuseppe Montesano nell'edizione Adelphi ben si attaglia anche all'Ariadne auf Naxos di Richard Strauss, in scena alla Fenice di Venezia nel mese di giugno 2024, dopo una latitanza che in laguna durava dal marzo 2003, quando fu data al Malibran. Ed effettivamente, nella versione rivista del 1916 con cui abitualmente circola, e nella quale è presentemente allestita, qualcosa di «onirico e delirante» quest'opera ce l'ha.

Com'è noto, nel Prologo un ricco borghese di Vienna (che adombra il monsieur Jourdain di Molière, alla cui pièce il lavoro di Strauss era legato nella prima versione del 1912) decide di dare a casa sua un'opera seria su Arianna abbandonata da Teseo a Nasso, appositamente scritta da un non meglio precisato Compositore allievo del Maestro di Musica (tutti lasciti di Molière), cui seguirà una farsa di comici. Per capriccio del padrone di casa, opera seria e farsa dovranno essere rappresentate contemporaneamente, per non perdere tempo, prima del grande spettacolo pirotecnico delle nove, con gran disappunto del Compositore. Tuttavia, di fronte alla scelta se vedere la sua opera rappresentata tagliata oppure non rappresentata affatto, il Compositore accetta il compromesso: già che piace a lui così…

Segue l'opera vera e propria, inscenata nel teatro della casa del mecenate, con una sua realtà fittizia, racchiusa nella realtà fittizia del teatro luogo fisico, racchiusa nella realtà “vera” dello spettatore: una galleria di specchi che moltiplica gli spazi, un'opera che riflette sull'opera, un gioco di scatole cinesi, pirandellianamente sospeso tra l'al di là e l'al di qua della quarta parete. Cose già sentite, forse, così come la parodia del genere settecentesco sia serio, nella scelta del soggetto e dello stile, sia buffo, con le maschere della commedia dell'arte: una parodia che Stravinskij porterà avanti, con ben altri stilemi espressivi, nel suo periodo neoclassico, fino al Rake – per non parlare delle varie Scarlattiana e Vivaldiana di quegli italiani entusiasti delle proprie radici settecentesche. Ad ogni modo, tutte operazioni posteriori all'Ariadne, alla quale non sono estranee citazioni ben motivate, tra le altre, della Quarta e della Sesta di Beethoven, così come il tristaniano “tema del filtro” – oltre a una spolverata di Mozart che aleggia sopra diverse pagine.

Non importa che Hugo von Hofmannsthal ambientati il Prologo nella casa di un parvenu viennese del XVIII secolo e che Paul Curran, in questo allestimento, coprodotto col Teatro Comunale di Bologna (dove lo si è già visto nel 2022) e col Giuseppe Verdi di Trieste, lo trasponga ai giorni nostri. La trasposizione rende forse ancor più pregnante il non-detto sotteso. All'apertura del sipario, grazie alle scene e ai costumi di Gary McCann, siamo in un grande salone bianco con lampadari di design e lesene con capitelli a forma di maschera tragica romana, forse un accenno alla passione per il teatro del misterioso patronus che parla attraverso il suo Maggiordomo in eccentrico completo malva (ruolo recitato dal bravissimo Karl-Heinz Macek). Vengono poi portate alte casse di legno con le scritte FRAGILE e VENEZIA – le scenografie dell'opera nell'opera – ed entrano cantanti e compagnia di comici. A tal proposto è bene leggere che cosa dichiara Curran nell'intervista: «Ho tenuto a mente molto chiaramente una delle lettere tra Strauss e Hofmannsthal in cui il primo diceva che la differenza tra la troupe di Zerbinetta e quella dell'opera avrebbe dovuto essere scioccante». L'effetto non potrebbe riuscire meglio, con un Compositore e un Maestro di Musica sobriamente in nero (un poco più pragmatico il Maestro, in jeans), che anche nelle movenze testimoniano il loro gran prendersi sul serio, e i comici dai colori sgargianti, ciascuno col suo look, a cominciare dal Maestro di Ballo in casacca arancione, come uno stilista estroso: accostamenti di colori che trasmettono eccentricità, euforia, un essere volutamente sopra le righe, anzi, un “apparire” contrapposto all'”essere” dei musicisti. Un posticcio che è motivo di riflessione. È ciò che succede ad affidare un'opera come questa, dai complessi e modernissimi risvolti psicologici, a un regista in gamba, capace di trasporre conservando lo spirito, direi mahlerianamente custodendo il fuoco senza adorarne le ceneri. E se ne ha la prova ancor più nell'opera vera e propria che segue.

Opera dove scompaiono alcuni personaggi a favore di altri. Menzioniamo qui, perciò, le encomiabili prove di Markus Werba quale Maestro di Musica, le cui qualità musicali, la cui capacità di immedesimazione in ruoli sia buffi, sia seri (personalmente finora il miglior Papageno in circolazione) e la cui voce ben timbrata «son note all'universo… e in altri siti», e di Sophie Harmsen quale Compositore (anche qui emerge la parodia del genere serio nel ruolo en travesti), mezzosoprano dalle doti eminentemente drammatiche e di grande prestanza vocale, che riesce al meglio nei momenti di maggior pathos dove esalta la santità della sua arte: e più la sua prova è convincente, più riesce meglio, per contro, a far la figura dell'albatro di Baudelaire, goffo sulla tolda e incapace di librarsi, irretito dalla volgarità che lo circonda, quella dei comici. Di qui a collegarlo con Mozart e la pedata del Conte Arco è un attimo…

È l'arte mercificata. Che fa comodo fintantoché non disturba. E che fa montare in furia chi invece all'arte riconosce una supremazia e un motivo per vivere, e non un'identità di puro passatempo da giovin signore. Le posizioni idealistiche del Compositore, e di riflesso della sua creatura Arianna, che a Teseo preferisce la morte, salvo poi farsi andar bene Bacco, se non altro perché è un dio, contrapposte a quelle più pragmatiche del Maggiordomo, che incarna il potente capriccioso, e di Zerbinetta, abituata ad andare per le spicce, e che se non è uno è l'altro va bene uguale, e che espone la morale al termine dell'opera – qualunque nuovo amante apparirà un dio rispetto al precedente, e il gioco delle illusioni, delle finzioni, appunto, ricomincerà – emergono lampanti in questa regia, ben esposte da Curran nella suddetta intervista, che dimostra di aver veramente capito l'opera, andando oltre l'aspetto di puro divertissement quale secondo alcuni critici sarebbe, e che se viste in quest'ottica stagliano con chiarezza un cinismo che fa addirittura male. Fa pensare all'ascia per il mare ghiacciato dentro di noi di Kafka o a Herbjørg Wassmo: «[…] Se si vuole scrivere un libro su delle persone reali, non potrà mai essere altro che così: atroce!» (La veranda cieca, trad. Danielle Braun Savio). Qui non è un libro, è un'opera: ma attraverso la finzione di personaggi inventati e di miti, riesce a parlare davvero di «persone reali»: se non altro, perché la sostituzione di un nuovo dio con quello precedente l'ho vista verificarsi di persona più di una volta. Basta guardarsi attorno.

Alla riuscita del Prologo concorrono poi le buone prove di Blagoj Nacoski, tenore agile e brillante nel ruolo del Maestro di Ballo, di Francesco Milanese (un Parrucchiere), Nicola Pamio (un Ufficiale) e Matteo Ferrara (un Lacchè).

Al rientro dall'intervallo, è il sovrintendente e direttore artistico Fortunato Ortombina a spiegare, a sipario chiuso, che uno dei colpi di genio di Strauss è l'aver orchestrato l'Ariadne ricorrendo ad un ensemble da camera, ventitré strumenti appena (come i ventitré di Metamorphosen: ma là saranno solo archi), che mimano le risorse di un'orchestra di corte, in ossequio alla finzione, ma che con l'introduzione di un pianoforte e di un armonium rende il suono cangiante e straniante, tra wagnerismi e settecentismi. E di un trombone basso. Che nella recita di domenica 30 giugno 2024, di cui si riferisce, viene suonato per l'ultima volta (per lo meno da stipendiato!) da Claudio Magnanini: dopo quarant'anni di carriera, il professore alle soglie del pensionamento, emozionato di fronte a tutto il Teatro che gli tributa una standing ovation, augura a fianco di Ortombina il meglio ai suoi colleghi e torna in buca.

Eccoci così all'Ariadne. Il salone è lo stesso di prima, ma anziché la grotta voluta da Hofmannsthal, Curran installa delle efficacissime rovine di un tempio classico, ombreggiate dalle sapienti luci di Howard Hudson. In primo piano, con un raffinato guardinfante scuro, che fa molto rétro, Arianna si adagia su un'agrippina. Attorno a lei due satiri con tanto di corna caprine e pettorali in vista – chapeau a trucco e parrucco – contribuiscono all'ambiente bucolico nel quale, con gusto sapiente, Naiade, Driade ed Eco si inseriscono con abiti dall'eleganza ardita e ricercata, nell'insieme un po' alla Tim Burton: meraviglioso contrasto stilistico che si acuisce vieppiù con l'arrivo dei comici: le quattro maschere spasimanti di Zerbinetta, durante la sua celebre aria, sono moderni cicisbei in completo rosa e fucsia – ribadiamo, magnificamente screziati dalle luci di Hudson, che sembra quasi accennare a coreografie da musical. Zerbinetta, poi, è un'autentica soubrette in minigonna, calze bianche e zeppe, perfetta per il suo ruolo, un po' Despina che «dee in un momento / dar retta a cento», un po' Leporello intento a sciorinar conquiste. Da ultimo arriverà Bacco, in vestaglia dorata, un po' dandy, un po' blagueur, che al termine dell'ampio duetto conclusivo, largamente “tristaneggiante”, si allontana circonfuso dal fumo e da una luce di un dorato alla Klimt che come estetica riporta allo Jugendstil primonovecentesco viennese. Straussiano. Il bello è che tutta questa messe di elementi disparati, miracolosamente, viene ad aver senso e coerenza.

Compositore e Maestro di Musica non spariscono dalla scena, ma assistono increduli allo scempio che vien fatto dell'opera originale, con gli irriverenti interventi dei comici. Ma qui occorre dare il giusto rilievo all'Arianna (e Primadonna nel Prologo) di Sara Jakubiak, soprano di stampo tenebroso, di grande caratura, dal volume e dall'impostazione wagneriani, come testimonia il suo repertorio, in cui abbondano anche ruoli straussiani e in generale novecenteschi. Mattatrice della serata è però lei, la Zerbinetta di Erin Morley, che lungo tutta l'opera, ma massime nella sua funambolica e difficilissima aria, ha modo di sfoggiare un eccellente controllo del suo strumento, che si presenta chiaro, luminoso e sonoro, delle colorature perlate, belle sgranate e a fuoco, unite a una verve e a una consumata padronanza del palcoscenico, istrionica sia come comica “dentro l'opera”, sia come attrice. Molto ben fatto anche per lo squillante Bacco (e Tenore nel Prologo) di John Matthew Myers, che abbina una voce solare e in grado di correre a grande distanza con un suo uso intelligente, fatto di sfumature e chiaroscuri.

Non da meno sono i due gruppi, maschile e femminile, di comprimari, tutt'altro che secondari: da una parte l'Arlecchino di Äeneas Humm, lo Scaramuccio di Mathias Frey, il Truffaldino di Szymon Chojnacki e il Brighella di Enrico Casari, tanto amalgamati nei pezzi d'assieme, quanto ben distinti negli interventi solistici; dall'altra la Najade di Jasmin Delfs, la Driade di Marie Seidler e l'Eco di Giulia Bolcato, qui concepite come un trio di vocalist, dall'ottima prestazione sia canora, sia scenica.

A concertare con sapiente perizia è Markus Stenz, cui va il merito di saper camaleonticamente seguire il continuo cambio di registro della scrittura straussiana, adattando il suono degli elementi dell'Orchestra della Casa alle diverse circostanze e bilanciandone bene il peso rispetto alla componente vocale.

Seppure all'ultima replica, il Teatro appare pieno e gli applausi estremamente convinti. Strauss, presenza piuttosto costante a Venezia, continua così a confermarsi scelta vincente in un Teatro che a suo tempo lo vide anche in veste di direttore d'orchestra, come riporta l'interessante rubrica della monografia.

Christian Speranza

4/7/2024