Guglielmo, non Guillaume
Pascoli di mucche, le montagne di fronte, regie fatte in casa, cantanti forgiati dal direttore, il Festival di Erl è il feudo tirolese di Gustav Kuhn: ultimo avamposto di un grande direttore che, varcata la settantina, ha deciso di uscire dai ranghi dello star-system e lavorare solo divertendosi. Kuhn, nelle sue imprese, è insieme titanico e monellesco (quel suo Ring, sempre a Erl, in ventiquattr'ore, anziché spalmato in quattro giorni…), guarda a Karajan nel farsi carico pure delle regie, emula Muti nel preferire cantanti disciplinati piuttosto che carismatici, ma resta assai più ironico dell'uno e dell'altro. Non tutte le ciambelle gli riescono col buco, perché è difficile approcciare i grandi capolavori con orchestrali spesso acerbi, coristi più volenterosi che altro e solisti di valore altalenante: ma, in fondo, è l'idea stessa del far produzioni “di laboratorio” a far sì che, a Erl, il metro di giudizio sia meno severo che a Bayreuth o a Salisburgo. Dunque, di questo Guglielmo Tell, converrà focalizzare innanzi tutto i pregi.
Il primo è la consapevolezza drammaturgico-stilistica di Kuhn in area rossiniana, almeno per quanto riguarda il Rossini serio. Si tratta di una consapevolezza che la critica italiana – preoccupata di tutelare, in questo repertorio, bacchette assai più blande e omogeneizzate – è restia a riconoscergli: eppure, forse solo chi ebbe modo di ascoltare la sua Ermione a Pesaro può aver chiaro come quest'opera fosse infinitamente più “avanti” dei propri tempi, e appunto per questo diventò l'unico lavoro di Rossini rifiutato vivente l'autore. Inoltre Kuhn mette in scena Guglielmo Tell, non Guillaume Tell: scelta che oggi sembra di retroguardia e, tuttavia, non solo rende giustizia all'onorevolissima versione ritmica di Calisto Bassi, ma ci ricorda come – nonostante la vulgata ne abbia sempre fatto un esempio preclaro di grand-opéra – il Tell rechi in frontespizio la semplice dicitura di “Opéra en quatre actes”, aggirando i desiderata più standardizzati della committenza parigina e garantendo a Rossini, al di là delle danze e dei concertati monumentali, un linguaggio del tutto autonomo e personale. Senza contare che la traduzione italiana assicura un ductus più idiomatico alla dimensione belcantistica, versante – quest'ultimo – cui Kuhn è oltremodo attento: con una sensibilità, si badi, lontana dal vocalismo alleggerito e baroccheggiante dei rossiniani odierni e incline, piuttosto, a una sorta di belcantismo drammatico.
Ne sortisce un autentico “melodramma tragico” (vedi ancora la traduzione di Bassi), dove declamato e virtuosismo s'intersecano evidenziando una matrice insieme italiana e tedesca (nel Tell di Kuhn il sentimento della natura emerge nella sua schilleriana complessità, travalicando il mero dato paesaggistico), lasciando semmai in sottordine proprio certi francesismi della partitura. Tutto questo, poi, in parte si realizza e in parte solo s'intuisce, dati appunto certi limiti strutturali della produzione: l'orchestra del Festival si difende con onore ed entusiasmo, ma gli archi restano meno espressivi dei fiati; e il coro, soprattutto nel secondo atto, non sempre è all'altezza. Un po' di superficialità nei momenti canonici (la Sinfonia e, più ancora, il Finale) si alterna a un gran senso del contrappunto e della struttura: sotto quest'aspetto tutto il blocco conclusivo del terzo atto è davvero esemplare, e già da solo basterebbe a pareggiare il conto.
In palcoscenico il versante femminile surclassa quello maschile. Intensa nel cantabile e svettante nel Finale terzo, la Matilde di Anna Princeva è un'autentica rivelazione e un salutare ritorno all'antica complessione canora del soprano drammatico di agilità. Limpida e pugnace en travesti, Bianca Tognocchi plasma a sua volta un Jemmy di spessore coprotagonistico; ma, un gradino sotto, pure Anna Lucia Nardi sa ritagliarsi un buon primo piano come Edvige. Per il resto, la bestia nera del Tell è – notoriamente – il tenore: qui, però, a deludere è soprattutto il baritono, perché l'emissione infossata di Giulio Boschetti limita Guglielmo nelle espansioni eroiche come nelle perorazioni domestiche. Iurie Ciobanu, invece, è un Arnoldo cauto e “tenorino” (come taglia vocale sarebbe un perfetto Pescatore, qui disbrigato onorevolmente da Edoardo Milletti), sottodimensionato ma di buona linea. Tra i bassi, Adam Horvath è un Gualtiero sfocato e Giovanni Battista Parodi un Gessler di maggior incisività, ma per virtù sceniche piuttosto che vocali.
Il Kuhn regista, in passato, ha compromesso quanto il Kuhn direttore edificava: qui però i continui innesti coreografici (di Katharina Glas) valorizzano la dimensione ritmico-danzante, oltre che cantabile, impressa all'orchestra dalla bacchetta; le gigantesche e stilizzate sculture femminili entrano in buona dialettica con il sentimento della natura (forse, rinviano pure all'idea della foresta semovente di macbetiana memoria); e la scena di Gessler viene contrappuntata da un siparietto sadomaso (quattro danzatrici in cilindro e tacchi a spillo adoranti il tiranno, ma pronte a far schioccare la frusta sui vassalli) per una volta più sexy che gratuito.
Paolo Patrizi
24/7/2016
Le foto del servizio sono di Xiomara Bender.
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