Dall'ultima alla prima, e poi Berg
È sempre interessante confrontare il punto di partenza e il punto di arrivo di un compositore, soprattutto quando si può fare durante un unico concerto. Il sedicesimo della stagione dell'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN), per esempio, 10 e 11 marzo 2016 dall'auditorium Arturo Toscanini di Torino, ha congiunto le due estremità della produzione sinfonica di Gustav Mahler, proponendo la Prima Sinfonia accanto all'unico movimento sostanzialmente completo della Decima, l'Andante-Adagio d'apertura. Hartmut Haenchen – direttore che ha fatto di Mahler l'autore quasi esclusivo della sua vita – ha iniziato proprio da questo “torso sinfonico” della Decima nella revisione di Deryk Cooke, compositore e musicologo che di questa sinfonia approntò la performing version oggi più eseguita: non un vero completamento, ma una versione eseguibile (e criticamente motivata nei casi di interventi diretti sull'orchestrazione mancante) di ciò che Mahler ha lasciato: fatica passata attraverso quattro tentativi tra il 1960 e il 1975!
Con riferimento al concerto dell'11 marzo, Haenchen attacca senza troppi preamboli il recitativo iniziale (viole sole, compatte, anche se lievemente distorte), tenendo un Andante sostenuto, che non si lascia conquistare dalla pensosità della linea melodica. L'intera esecuzione è stata attraversata da notevole unità – il tempo lievemente più veloce rispetto alle incisioni in commercio ha permesso di cogliere a volo l'impianto di base del movimento, ampio e denso. La trama resta comprensibile, frutto di un attento lavoro di calibrazione sonora sui frammenti di temi lasciati e ripresi (passaggi ai corni ben rilevati, per esempio, ottimi gli accordi in fortissimo degli ottoni, pieni e sicuri, che inducono un confronto con la lettura storica di Ormandy). Ma, se da un lato questo è un merito, un demerito – pur con tutta l'ignoranza che l'estensore ammette circa gli studi che Haenchen avrà sicuramente compiuto prima di presentare la “sua” Decima – è quello di non lasciar “respirare” la melodia: le si deve lasciare infatti il tempo di “depositarsi” nell'ascoltatore. La scrittura di Mahler si fa qui diversificata e intricata secondo un modus già presente nella Nona, che si apprezza solo ad ascolti successivi, zeppo di dissonanze crudeli, che travalicano le date di composizione (Dobbiaco, estate del 1910: l'ultima estate di Mahler) per proiettarsi in un futuro già presente attorno a lui. Forse per questo Haenchen sorprende il pubblico dell'Auditorium legando senza pau(s)e – e senza pau(r)e! – l' Andante-Adagio mahleriano ai Drei Orchesterstücke Op. 6 di Alban Berg, del 1914-15, componendo con essi una “quasi-sinfonia” che nasce, secondo questa interpretazione, dalla «naturale filiazione» (così il comunicato diramato in sala) dello stile di Mahler, che sarebbe sfociato in qualcosa di molto simile a quello di Berg.
L'Op. 6 di Berg, che completa una sorta di apprendistato sotto Schönberg, al quale il lavoro è dedicato, non è ancora prettamente dodecafonica, ma procede nella direzione di svuotare la forma per organizzare il caos. Nasce come “sinfonia mancata”, tre pezzi – un Preludio, un Girotondo e una Marcia, il primo e l'ultimo in relazione tra loro – debolmente ancorati alla musica tonale, in cui è evidente la fascinazione di Berg per l'universo tardo- e post-romantico, e per le sinfonie di Mahler in particolare: nell'organico (legni “a quattro”, archi in numero massiccio, folte percussioni tra cui un tam-tam chiaro e uno grave, retaggio della Seconda, di e un martello, eredità della Sesta) come nell'empito sonoro. L'azzardo di imparentare i due stili, però, appare forzato. Mahler ebbe a dire di Schönberg: «Non lo comprendo, ma lo sostengo, perché è un innovatore». Quel “non comprendere” lo stile di Schönberg, maestro di Berg, non potrebbe essere una dichiarazione di incompatibilità inconciliabile con i nuovi principi estetici della “seconda scuola di Vienna”?
È un mondo in disgregazione, quello di Berg, e tale è la lettura incisiva che ne dà Haenchen, che insiste sulla ferocia delle percussioni – generose, quando non ridondanti, tali da far perdere l'originalità del loro utilizzo in favore di un volume fonico assordante per partito preso – e sulla fusione dei frammenti “tematici” su piani monocromi, in modo da far prevalere l'impressione di disordine “ordinato”: è pittura musicale astratta, e proprio questa pare essere la cifra direttoriale di Haenchen.
Di diverso taglio la direzione della Prima Sinfonia in re maggiore di Mahler, meglio conosciuta come “Titano”, epiteto derivato da una delle revisioni dell'autore che, dopo averla composta negli anni 1888-89 (riutilizzando alcuni temi tratti dai suoi Lieder eines fahrenden Gesellen, del 1884), andava cercando consenso di pubblico sponsorizzando la sua prima creatura sinfonica con titoli roboanti e con programmi di ascolto ausiliari, tra cui il riferimento, per le esecuzioni di Amburgo (1893) e di Weimar (1894), al romanzo Il titano di Jean Paul, al secolo Johann Paul Friedrich Richter (1763-1825). L'intenzione iniziale era quella di un Poema sinfonico in forma di sinfonia in cui narrare le gesta di un eroe. Dopo altri ripensamenti, la Sinfonia in re maggiore venne licenziata definitivamente con la première di Berlino del 1896.
La prestazione dell'OSN, a parte una leggera diacronia dei legni e dei corni in apertura del primo movimento, raggiunge sempre alti livelli. I tempi scelti da Haenchen restano costantemente tesi, piuttosto disinvolti: per un primo tempo indicato Molto comodo – Sempre molto comodo sembra un controsenso. La tensione è avvertita più nella conduzione generale che nello stacco metronomico dei tempi; buona parte del fascino del terzo movimento, il più famoso, è scemata a causa dell'andamento troppo mosso. E per assurdo, la corrività che potrebbe concorrere a un esito soddisfacente, all'inizio del quarto movimento, segnato Tempestosamente mosso, è venuta meno proprio dove avrebbe potuto servire, togliendo furore interpretativo ad una pagina che non aspetta altro che riversare sul pubblico torrenti di lava incandescente; il contrasto di dinamiche tra gli archi, che si muovono come impazziti a suggerire il caos, e gli anatemi degli ottoni, è spinto al massimo, con i primi relegati su uno sfondo sonoro indistinto e i secondi prepotentemente in primo piano. Il tutto, che prende vita da un'attenta calibrazione delle masse sonore, avrebbe potuto riuscire meglio evitando di estremizzare la disparità acustica. L'aggiunta, sulle ultime battute, di una tromba e un trombone supplementari non è parsa così necessaria. L'ovazione del pubblico, tuttavia, è arrivata calorosa e prolungata, forse a causa della spettacolarizzazione degli otto cornisti chiamati, per la perorazione finale, ad alzarsi e suonare in piedi, per risaltare sul resto della massa sonora: espediente inutile ma a quanto pare gradito!
Christian Speranza
24/3/2016
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