Giulio Cesare nel suo labirinto
“Qui la celeste parca non tronca ancor lo stame alla mia vita!” esclama Giulio Cesare al culmine drammatico dell'opera omonima con la quale Händel, in virtù di una partitura di enorme rilievo, sferrò il colpo di grazia al rivale Bononcini. Il riferimento alle divinità del destino è il punto di partenza dello spettacolo confezionato da Damiano Michieletto, creato per il Théâtre des Champs-Élisées di Parigi e ora in scena, con minime variazioni, al Teatro dell'Opera di Roma. Una delle creazioni più convincenti del regista veneto fra quelle da noi recensite, grazie a un'impaginazione lineare e di indubbia efficacia teatrale. Michieletto si muove su un duplice registro: da un lato la cifra ieratica con le tre parche, di vaga fattura simbolista, e il fantasma di Pompeo (un Matteo Munari dalla gestualità molto precisa ed evocativa) presenza quasi costante sulla scena, a delineare lenti rituali degni di Robert Wilson, e dall'altro l'azione, coinvolgente e in grado fornire sostanza drammatica alle arie. Si pensi alla stupenda Va tacito e nascosto con corno solista, orchestrata come la scena di un film. Tolomeo ha predisposto un banchetto avvelenato per Cesare il quale, scoperto l'inganno, umilia il rivale gettandogli contro il cibo. Un brano fra i più suggestivi della partitura, arricchito dalle ingegnose variazioni nel da capo eseguite con virtuosismo e dominio tecnico da Raffaele Pe. Il primo atto si svolge in uno spazio di un biancore abbacinante, salvo poi aprirsi su uno sfondo oscuro e nebbioso sul quale si stagliano rituali arcani (le scene sono di Paolo Fantin). Le parche tessono un filo rosso che fuoriesce direttamente dalla bocca di Pompeo, a suggerire la precarietà dei destini umani. Lo stesso Cesare non viene raffigurato come un eroe padrone del proprio fato, ma come uno spettatore degli eventi che si svolgono di fronte ai suoi occhi. Non a caso, durante l'ouverture, si agita come un uomo preda di legami dai quali non riesce a sciogliersi. Nel secondo atto vediamo un reticolo di fili rossi che potrebbe tranquillamente venire da una grafica computerizzata, ma che invece Michieletto preferisce costruire materialmente sfruttando al massimo i vari piani prospettici e il gioco di riflessi degli specchi posti sul palcoscenico. La transizione fra secondo e terzo atto mostra come un semplice velario di plastica mosso dal vento possa farsi veicolo metaforico di molteplici suggestioni, prima fra tutte la tempesta che agita l'animo dei personaggi. Armi da fuoco in scena ed esplicite allusioni sessuali fanno ormai parte dell'attualizzazione del teatro d'opera, ma poco aggiungono a uno spettacolo di indubbia suggestione. Belli i costumi di Agostino Cavalca, di stampo moderno ma non sciatti o banali, pregni di suggestioni atemporali.
Riguardo il cast, il già citato Pe incarna un Cesare fragile e disorientato, colmo di emotività, particolarmente toccante nel recitativo accompagnato Alma del gran Pompeo, dal quale emerge l'effimera sostanza della materia umana. Addirittura travolgente dal punto di vista scenico e vocale Carlo Vistoli nel ruolo del perfido Tolomeo. Eccellente Aryeh Nussbaum Cohen, un Sesto che si spoglia progressivamente dei propri panni adolescenziali per assumere su di sé l'arduo ruolo del vendicatore. Straordinaria come di consueto Sara Mingardo, perfettamente a proprio agio nella tessitura di Cornelia, in grado di proseguire la recita anche dopo aver subito un piccolo infortunio che l'ha resa claudicante. Con Cleopatra, Händel modella una delle sue creazioni più complesse e articolate. Alla leggendaria sovrana sono affidate arie seduttive, vigorose e dolenti, dalle molteplici sfaccettature emotive. Mary Bevan risolve l'arduo ruolo con disinvoltura espressiva. A proposito delle modifiche rispetto alle recite parigine delle quali accennavamo, proprio a Cleopatra è affidato il taglio del filo rosso che governa il destino di Cesare, una maniera per trasformare il lieto fine dettato dall'estetica barocca in una conclusione più moderna che prefigura l'imminente assassinio del protagonista, il quale appare circondato da minacciosi sicari. Discreto l'Achilla di Rocco Cavalluzzi, apprezzabili gli altri. Rinaldo Alessandrini risolve la partitura con la consueta maestria, dovuta a una lunga frequentazione del repertorio, e con spiccato senso del teatro. L'orchestra appare all'inizio forse un poco rigida e meno duttile rispetto a una compagine di specialisti, ma prende confidenza con il procedere della recita, fornendo una prova di complessivo valore. Peccato che alcuni tagli ci abbiamo privati di arie pregevoli, come Venere bella o ancora Tu la mia stella sei. Speriamo che, visto anche il notevole apprezzamento del pubblico, il Costanzi possa ospitare più di frequente titoli haendeliani o comunque del repertorio barocco, solitamente poco presenti.
Riccardo Cenci
17/10/2023
La foto del servizio è di Fabrizio Sasoni.
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