RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Con Paavo Järvi tra Schumann e Haydn

Anche quest'anno le stagioni sinfoniche stanno per volgere al termine. A Torino la prima a congedarsi è quella del Lingotto. Da sempre l'associazione Lingotto Musica si distingue per offrire pochi ma selezionati appuntamenti, dove a spiccare è la qualità dei prestigiosi interpreti chiamati a esibirsi sul palco dell'auditorium Giovanni Agnelli: così, ad esempio, il concerto di chiusura della stagione, martedì 16 maggio 2023, ha visto la presenza di Paavo Järvi sul podio e, dinanzi a lui, i professori della Deutsche Kammerphilarmonie Bremen. In programma due sinfonie di Franz Joseph Haydn, la nº93 in re maggiore, Hob.I:93 e la nº104, anch'essa in re maggiore, Hob.I:104.

Due sinfonie abbinate non a caso: la prima e l'ultima delle “londinesi”. La nº93, scritta probabilmente nella tarda primavera del 1791, fu presentata a Londra il 17 febbraio dell'anno successivo in occasione del primo soggiorno haydniano nella capitale britannica, 1791-92, durante il quale videro la luce le sinfonie dalla 93 alla 98; quelle dalla 99 alla 104 furono composte invece alla volta del secondo soggiorno, 1794-95. La nº104, in particolare (detta “London” come potrebbero essere dette anche le altre), venne ultimata nell'aprile del 1795 ed eseguita il mese dopo sotto la direzione di Giovanni Battista Viotti. Promotore dei due viaggi di Haydn oltremanica fu l'impresario Johann Peter Salomon, che sfruttò la grande fama dell'anziano compositore e la sua posizione ormai da freelance, dopo la morte del principe Nikolaus Esterházy nel 1790, per convincerlo a comporre e tenere concerti per le stagioni da lui organizzate alle Hanover Square Rooms; quando però decise di unire le sue forze a quelle del maggior teatro della città, le esecuzioni si spostarono al King's Theatre, e fu in quella sede, in un memorabile concerto tutto dedicato a Haydn e alle sue musiche, che venne battezzata la “London”.

La fama di quella che sarebbe stata l'ultima a sinfonia di “papà” Haydn si diffuse presto anche in Germania. Una cinquantina d'anni dopo, tanto per dire, Schumann non restò indifferente al cipiglio marziale dell'Adagio introduttivo della 104, e, opportunamente modificatone il metro, da 4/4 a 6/4, e la strumentazione, ne utilizzò l' incipit per avviare la sua Seconda Sinfonia Op.61 nel 1845. Sarà stato forse questo il sottile legame che ha spinto a intercalare, fra le due sinfonie di Haydn, una composizione di Schumann: il Concerto per violoncello e orchestra in la minore Op.129, del 1850. Solista d'eccezione, Sol Gabetta (giù il cappello!). Un concerto per certi versi atipico, tagliato nei canonici tre movimenti ma che, nel tourbillon di concerti solistici per virtuosi di quegli anni (uno su tutti: il Primo Concerto per violino e orchestra di Wieniawski è di poco posteriore: 1853), rinuncia alle spettacolarizzazioni del solista e a passaggi di bravura per inoltrarsi in un clima soffuso di malinconia che rifugge da qualsivoglia esteriorità.

Sol Gabetta, non al primo approccio con questo classico della letteratura violoncellistica, affronta, esegue… sfiora la sua parte con pregevole souplesse e, complice la struttura del Concerto, i cui movimenti sfumano l'uno nell'altro senza cesure, dona all'insieme l'aspetto di un dialogo intimo, quasi una meditazione infinita, lo intride di quella pensosità che è cifra distintiva del pezzo, effondendovi la mezza tinta di un lirismo dolce, fluido, cantabile e sofferente, che solo verso la fine si apre in un afflato più mosso e vivace, pur non assurgendo mai, volutamente, ai vertici di un protagonismo assoluto che qui sarebbe fuori luogo. Ma è dal connubio con l'orchestra che nasce la vera magia. Facendo sue le esigenze tecniche e il volume limitato del solista, Järvi bilancia ad arte i pesi sonori, amalgamando i timbri in un ambrato tappeto sonoro, caldo e mai prevaricante, ottimo per esaltare e circoscrivere il violoncello (pregiatissimi, tra l'altro, gli strumenti con cui Gabetta si esibisce, un Matteo Goffriller, 1730, e lo Stradivari “Bonamy Dobrée-Suggia”, 1717). Non mancano gli interventi più robusti, affidati all'orchestra sola: ma anche in questo caso le dinamiche vengono calibrate in modo da essere commisurate al resto del concerto.

Interpretazione magistrale da parte di entrambi, quindi, in virtù soprattutto di un equilibrio pieno di buon gusto. Gli applausi confermano il gradimento da parte del pubblico: un fuori programma di ringraziamento era pressoché certo, ma il coinvolgimento di Pärvi e della Kammerphilarmonie è stato davvero inaspettato: richiamata sul palco, Gabetta, d'accordo col direttore, ha regalato l'Aria di Lenskij, dall'Evgenij Onegin di Cajkovskij, arrangiata per violoncello e orchestra.

Se Pärvi e la Deutsche Kammerphilarmonie Bremen fanno ala attorno al violoncello di Sol Gabetta, con le Sinfonie di Haydn diventano i veri animatori della serata. Da una delle migliori orchestre da camera al mondo non ci si aspettava nulla di meno, ma lo squillo e il nitore del suono hanno comunque sorpreso e stupito, soprattutto in brani come questi, appartenenti al più puro Classicismo viennese, dalla logica formale chiara e senza troppe sorprese, quindi in un certo senso “facile” da seguire, dove meglio che in altri casi è possibile concentrarsi sugli aspetti tecnici. Importante fattore filologico e formale, da questo punto di vista, è l'impiego dei corni naturali e delle trombe barocche, che con la loro sonorità più aspra e brillante donano quel tocco di sapore “vero Settecento”, o almeno restituiscono con più fedeltà ciò che Haydn ha concepito con gli strumenti del suo tempo. Tesi e vibranti anche i timpani, penetranti e convincenti i legni, mentre per gli archi viene adottata la disposizione “alla tedesca”, coi violini primi alla sinistra del direttore e i secondi alla destra, lasciando viole e violoncelli al centro: disposizione che permette agli archi dal suono più acuto, che in genere trainano le composizioni settecentesche, di non essere offuscati da quelli più gravi e di raggiungere meglio il pubblico.

Sarebbe stato scontato trattare due sinfonie di Haydn dagli scopi e dalle strutture simili – la tonalità di re maggiore, scelta per entrambe, sottolinea l'intento magniloquente e celebrativo – in modo simile. Pärvi invece, direttore estone figlio d'arte che proprio del repertorio romantico tedesco , oltre che russo e nordico, ha fatto il suo fiore all'occhiello, le differenzia, andando un poco più cauto con la 93 e conservando lo smalto per la 104. E giustamente: la 104, forte delle precedenti undici sinfonie in angla terra, con risorse orchestrali maggiori di quelle di casa Esterházy e quindi in grado di dare a Haydn la possibilità di sperimentare, assomma le esperienze passate e le riassume, superandole e portando a compimento un percorso evolutivo che, prospetticamente, chiude l'era della sinfonia classica sensu stricto e spiana la strada a a Beethoven, che sfornerà la sua Prima Sinfonia appena cinque anni dopo. Ecco quindi avviare la 93 maestosamente ma senza allargare troppo le maglie dell'Adagio e penetrare nell'Allegro assai imprimendo un vitalismo giusto, sobrio, senza affanno, senza estroserie di troppo, riserbando le graziosità dal retrogusto mozartiano al Largo cantabile, dove, a fare attenzione, emerge in nuce il refrain del Finale della “Pastorale” di Beethoven (o quantomeno una sua controfigura). Dall'inizio, in quel delicato emergere dei due primi violini e della prima viola, quasi fossero un concertino barocco, alla burla finale del motto del fagotto solo, dove bonario ancora sorride lo spirito dell'Haydn buontempone, è tutto tenuto e diretto con finezza impareggiabile. La precisione dei ribattuti di trombe e timpani caratterizza il Minuetto che segue, mentre chiude un Finale. Presto ma non troppo reso scoppiettante e particolarmente vivace.

Più sfaccettata l'interpretazione della 104, ottenuta con duttilità di suono e attento controllo delle dinamiche, dall'Adagio introduttivo molto lento, che respira la stessa solennità d'apertura della Creazione e carica l'orecchio di attesa, alla sfrontatezza festosa del Minuetto, del quale propriamente conserva ancora l'andamento ma che già vuol correre verso lo Scherzo, fino alla scorrevolezza, ancorché da Järvi un poco trattenuta, alla giocosità un po' rude del Finale. Spiritoso, prefigurazione lontana del Trio dello Scherzo, ancora una volta, della “Pastorale” beethoveniana. La chiusa rapinosa subisce un crescendo di suono, potenza ed entusiasmo fino all'ultima pagina e non può che concludere degnamente la serata.

Ma la serata non si conclude con l'ultimo accordo della 104. Era da un po' che tenevo d'occhio quel rullante accanto ai timpani, strumento estraneo alle Sinfonie di Haydn e al Concerto di Schumann: ed ecco svelato l'arcano: la Tritsch-Tratsch Polka Op.214 di Johann Strauss jr.: un altro fuori programma orchestrale. Deposti i corni naturali e imbracciati quelli a pistoni, messe da parte le trombe barocche e prese quelle moderne, ecco il timbro farsi più familiare, ecco l'atmosfera farsi festosa da Concerto di Capodanno ed ecco gli applausi fioccare ancora più convinti!

Christian Speranza

26/5/2023

Le foto del servizio sono di Mattia Galdo.