Un Pirata all'arrembaggio
Terzo titolo del catalogo operistico belliniano, rappresentato per la prima alla Scala di Milano il 27 ottobre 1827 Il Pirata può certo essere considerato il manifesto musicale del primo Romanticismo melodrammatico italiano, caratterizzato da ambientazioni medievali cupe, lugubri e tenebrose, dove le passioni umane più travolgenti, amore, odio, vendetta, perdono, pazzia, rancore, misericordia, gelosia, vengono spinti fino all'esasperazione e all'inverosimile, aggrovigliandosi e accavallandosi fino a portare i protagonisti alla devastazione di sé stessi o dei loro antagonisti. In verità lo spirito romantico trae linfa proprio dal romanzo gotico tardo settecentesco il cui prototipo può considerarsi Il castello d'Otranto (1764) di Thomas Horace Walpole, seguito dal Vathek (1785) di William Beckford, da I misteri di Udolfo (1794) di Ann Radcliff, da Il Monaco (1796) di Matthew Lewis, dal Wieland (1798) di Charles Brockden Brown, fino al Frankenstein (1818) di Mary Shelley e al Melmoth l'errante (1820) del pastore protestante irlandese Charles Robert Maturin.
Sarà proprio quest'ultimo a scrivere la tragedia in cinque atti Bertrand or the Castle of St. Aldobrand , ambientata sulla costa settentrionale della Sicilia fra Messina e Palermo e che debutterà al Drury Lane di Londra. Tale tragedia venne accomodata per le scene francesi da Charles Nodier e Isidore Justin Taylor nel 1821 e da tale adattamento Felice Romani trasse il suo libretto in due atti per la musica del Cigno etneo.
Il Pirata è sicuramente l'opera più lunga del compositore catanese e presenta una drammaticità che trova agio in una prevalenza di splendidi e significativi recitativi declamati che preludono già in modo chiaro a quelli molto più vigorosi e possenti della futura Norma.
Il nuovo allestimento scenico proposto dal Teatro Massimo Bellini di Catania del melodramma ha debuttato lunedì 23 settembre (turno A), in ricorrenza della prematura morte del musicista avvenuta a Puteaux, sobborgo parigino dell'epoca, proprio il 23 settembre 1835. Diciamo subito che l'allestimento scenico proposto da Giovanna Giorgianni ci è parso un dejà vu di cose già proposte, ma a parte questo particolare, giacché rispettava il concetto di mimesis che in ogni caso dovrebbe aiutare lo spettatore ad astrarre da concreti e definiti sfondi già visti e rivisti, nel complesso esso risultava semplice ed essenziale.
La regia di Giovanni Anfuso non ci è parsa esprimere coerenza e cogenza fra golfo mistico, azione drammatica e linea canora, che risultavano nel complesso slegati e non sicuramente solidi e compatti nell'esprimere il dramma in tutta la sua veemenza emotiva. In verità l'empatia del pubblico è stata poco o nulla coinvolta, facendo coagulare tutto il flusso drammatico in una asetticità quasi da sala operatoria. I costumi di Riccardo Cappello risultavano adeguati all'ambientazione storica, ma a parte gli abiti di Imogene e Adele il resto rimaneva in un opaco complessivo grigiore.
Miquel Ortega ha condotto l'orchestra del nostro teatro in modo tutto sommato equilibrato, evitando sicuramente rifiniture e preziosismi, ma cercando di adeguare le sonorità al canto lirico e di non debordare né per eccesso né per difetto. La Sinfonia d'introduzione è stata comunque presentata molto bene, così come è da segnalare la magnifica prolessi del primo flauto dell'orchestra del teatro nell'aria “Col sorriso d'innocenza”, che è riuscita di un nitore e di una bellezza davvero estasianti. Il coro preparato dal maestro Luigi Petrozziello si è districato in modo onorevole, ma non ci è parso molto concentrato e partecipe come di solito è suo costume.
Il tenore Filippo Adami ci è parso quasi del tutto fuori ruolo. I cantanti a nostro avviso dovrebbero essere sempre cauti nella scelta dei ruoli vocali da affrontare, cercando di evitare quelli che per le loro voci sono improbi, pesanti e talora inarrivabili. E questo è stato il caso specifico di un tenore che sicuramente non può abbordare il ruolo di Gualtiero, che richiede un fraseggio ampio e articolato, una potenza particolare e un'emissione sempre sicura e talvolta possente. Le sue carenze sono risultate plateali nella cabaletta “Per te di vane lacrime” dove la sua uscita non ha registrato, ci spiace dirlo ma è la verità, un solo applauso.
Altrettanto inadeguato al personaggio di Imogene ci è parso il soprano Francesca Tiburzi che invero ne La Straniera di Bellini della passata stagione lirica si era distinta in modo più sicuro, adeguato ed efficace. La parte forse avrebbe richiesto un impegno più meditato, più approfondito, più compenetrato sia nella gestualità sia nell'esecuzione vocale, che risultavano nel complesso corrette ma poco coinvolgenti e trascinanti. I declamati belliniani non sono solo il tessuto connettivo di un'opera ma ne costituiscano assieme alle arie parte integrante, e pertanto andrebbero curati con uguale scrupolo. Infine un'attenzione maggiore al fraseggio e al legato belliniano avrebbero dato luce alla sua interpretazione rimasta ahimè alquanto neutra. Sul fronte squisitamente tecnico, il soprano ha purtroppo mostrato soventi lacune nella copertura degli acuti, oltre a uno sporadico ma maldestro uso della maschera, forse evocatore delle inimitabili esecuzioni callassiane.
Il baritono Francesco Verna ha esibito oltre ad un fraseggio appropriato alla musica belliniana una vocalità salda e sicura attraverso la quale riusciva a porgere appieno il carattere autoritario e dispotico di Ernesto, mettendo in campo anche una bella padronanza e un pertinente controllo delle note centrali sempre chiare, pulite e rifinite. Da segnalare la buona prestazione di Alexandra Oikonomou (Adele) che ha affrontato il suo personaggio con una vocalità chiara, distinta e dallo smalto luminoso. Il basso Sinan Yan (Solitario) ha confermato la sua vocalità forte, salda, brunita e sicuramente efficace. Adeguata la prestazione del tenore Riccardo Palazzo.
Giovanni Pasqualino
24/9/2019
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.
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