RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il Turco in Italia

al Rossini Opera Festival

Il secondo titolo presentato al Rossini Opera Festival 2016 è stato Il Turco in Italia in nuovo allestimento ideato da Davide Livermore e con il debutto del direttore e concertatore Speranza Scappucci, prima donna a salire sul podio al Rof. Il Turco in Italia è la tredicesima opera del pesarese e si colloca nei primi anni di produzione. Infatti, la prima assoluta fu al Teatro alla Scala il 14 agosto 1814 con protagonisti Filippo Galli, Giovanni David e Luigi Pacini. Rossini aveva già all'attivo importanti opere serie (Tancredi), le cinque farse veneziane, e opere buffe (Italiana in Algeri). Alla Scala egli esordì trionfalmente nel 1812 con La pietra del paragone, in seguito a tale successo e alla sempre più acclamata fama fu invitato a scrivere una nuova opera per il teatro milanese. Tuttavia, il pubblico scaligero non accolse con favore il nuovo lavoro rossiniano perché fu considerato un rimaneggiamento di ripiego rispetto a L'italiana in Algeri. Il successo arrivò qualche anno più tardi nel 1821 e in seguito fu confermato nelle molteplici riprese in altri teatri italiani ed europei i cui artefici furono i coniugi De Begnis, autentici cantanti-attori rossiniani. Come per altri spartiti dalla seconda metà del 1800 l'opera scomparve dai cartelloni e bisognerà aspettare il 1950 per avere una prima riproposta moderna a Roma al Teatro Eliseo con Maria Callas e Sesto Bruscantini diretti da Gianandrea Gavazzeni. In seguito, seppur lentamente, l'opera iniziò a essere rappresentata in vari teatri italiani ed esteri, cui seguì anche una versione critica dello spartito. In tale veste fu rappresentata al Rof per la prima volta nel 1983 con Samuel Ramey e Lella Cuberli quali protagonisti. Al festival pesarese fu in cartellone anche nel 1985 e 2007.

Per questo nuovo allestimento il Rof ha deciso di affidare l'incarico a Davide Livermore che nella stessa rassegna riprende anche Ciro in Babilonia del 2012. Livermore ha voluto ispirarsi ancora una volta al cinema presentando un “dittico” cinematografico per le due opere. Scelta un po' azzardata poiché anche “Ciro” era stato allestito con la stessa chiave, ma di questo parlerò in seguito. L'idea del regista è stata di ispirarsi ai film di Federico Fellini, inventando una drammaturgia ove ogni interprete del “Turco” si rifaceva a una complessa e lunga carrellata di personaggi felliniani, in parte scolpiti nella memoria di tutti noi. L'operazione a mio avviso è riuscita a metà, poiché il punto di partenza potrebbe essere interessante, ma quando un regista si fa prendere la mano con aggiunte recitate ecco che l'opera rossiniana è compromessa nel suo animo. E che questo sia permesso al Rof che com'è naturale rappresenta le opere in sede di esecuzione critica è ancor più grave. Il rispetto dello spartito è prenderlo cosi com'è, bello o brutto che sia, ma soprattutto perché creato da altri. All'inizio della rappresentazione assistiamo a un inutile dialogo (senza musica) tra gli interpreti che fanno percepire ciò che avverrà, la realizzazione di un film, il cui Poeta-Prosdocimo non è altro che il Mastroianni-Fellini del celebre film , creatore e autore della commedia. Da questo punto di vista le cose avrebbero potuto funzionare meglio se l'allusione cinematografica fosse stata presa come segmento narrativo e non come vero e proprio elemento che sovrasta l'opera e non la accompagna. Inoltre le continue interruzioni parlate (ciack scena prima, ecc.) non divertivano ma annoiavano. Il coro e un folto gruppo di comparse erano costituiti da tutti i personaggi felliniani, si poteva ravvedere Sandra Milo, la tabaccaia di Amarcord, la donna barbuta, circensi, eccetera, e alla fine il gran minestrone era spesso abbondante a scapito di una drammaturgia intricata che avrebbe avuto esiti più squisiti se l'accostamento fosse stato più moderato e delicato. Non si può tuttavia negare una teatralità efficace, molto compatta anche se troppo confusa o mescolata tra narrazione e finzione, prova e recita. La scena non colpisce particolarmente poiché costituita da pochi elementi e grandi tendoni bianchi, divertente la passerella finale, ma poteva essere utilizzata meglio, che evocava sempre il celebre film di Fellini. Straordinari invece i costumi di Gianluca Falaschi che riprendeva con qualche variante celebri abiti cinematografici, esemplari e di grande fattura sartoriale quelli di Fiorilla e Selim, ma anche i richiami alle molteplici muse felliniane presenti nel coro e nelle comparse.

Il direttore Speranza Scappucci a capo della non perfetta Orchestra Filarmonica “G. Rossini”, ottoni in particolare, si adopera con piglio narrativo abbastanza solido e una soddisfacente impronta narrativa. Dovrà raffinarsi soprattutto nei colori e nelle dinamiche che mi sono parse statiche e poco frizzanti, ma avrà tempo e comunque questo debutto pesarese è positivo e mi auguro in un futuro di crescita. Non brilla il Coro del Teatro della Fortuna di Fano “M. Agostini”, diretto da Mirca Rosciani, ma si disimpegna con onore.

Il Selim di Erwin Schrott è l'unico cantante a fornire una voce pregiata e di grande spessore. Scenicamente sfavillante, parafrasava “Lo sceicco bianco” ma vocalmente non in possesso di agilità rossiniane perfette e una certa monotonia d'accento, aspetto quest'ultimo abbastanza strano considerata l'istrionica versatilità del cantante. Grande delusione è stata Olga Peretyatko nel ruolo di Fiorilla. Ho sempre sostenuto che le parti rossiniane drammatiche erano oltre il suo limite, ma ero convinto che in questo ruolo avrebbe avuto un fertile terreno. Invece mi sono trovato di fronte ad una cantante in continua difficoltà d'intonazione, scarso volume, e zona acuta molto ridimensionata. Il momento più imbarazzante si è avuto nella grande aria del II atto nella quale non trovata l'accento drammatico e nel finale in palese difficoltà con i fiati, tuttavia il personaggio scenico era molto azzeccato.

Grande classe teatrale ha dimostrato Pietro Spagnoli, Prosdocimo, capace di rendere il suo compito sia scenicamente, da manuale il personaggio, sia ancora vocalmente fraseggiando con garbo. Diametralmente opposto il Geronio di Nicola Alaimo, in grave difficoltà nel sillabato e nel registro acuto, abbozza un marito sui generis senza molta traccia. Rene Barbera, Narciso, è appena accettabile considerando che anche per lui il settore acuto è malmesso, in aggiunta canta entrambe le arie, e la zona più efficace sarebbe quella centrale che utilizza poco. Il personaggio è reso a macchietta dalla regia ed egli non riesce a cogliere nulla di espressivo.

Brava Cecilia Molinari nel ruolo di Zaida, cantante precisa, dotata di buona voce e superba attrice. Encomio particolare per Pietro Adaini, Albazar, tenore in continua crescita che sfoggia una voce intonata, dotata di musicalità e squillo molto bello. Avrei preferito uno scambio di ruolo con Barbera.

Buon successo e molti applausi al termine.

Lukas Franceschini

12/8/2016

Le foto del servizio sono di Amati Bacciardi - ROF