RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

A volte ritornano…

Nel 1931 il fascismo, ormai stabilmente al potere, ha una delle sue consuete alzate d'ingegno e decide di imporre a tutti i professore universitari, vertice dell'istruzione, formatori di insegnanti e in teoria di tutta la classe dirigente e professionale d'Italia, un giuramento di fedeltà a Mussolini, o meglio al fascismo, nella persona appunto del Duce. La geniale idea, partorita da Balbino Giuliano, all'epoca Ministro per l'Educazione Nazionale, trovava la sua giustificazione pratica nell'articolo 18 del decreto, che tra l'altro così recitava:  « Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l'ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista…» Dunque, giurare di formare cittadini operosi, probi, e fin qui non ci sarebbe magari nulla da ridire, se non che ogni insegnante ha questo dovere senza nessun bisogno di giuramento, ma soprattutto devoti alla Patria e al Regime Fascista, il che tradotto in parole povere significa far di tutto per creare gente devota, dal latino devotus, participio perfetto del verbo devoveo che significa innanzitutto offrire in voto, ma anche votarsi agli dei infernali, ammaliare, stregare… quindi, incapace di pensare con la propria testa, o quantomeno disposta a spegnere selettivamente il proprio cervello a richiesta e magari dietro lauta ricompensa…. Più o meno quel che vanno cercando tutti i regimi dittatoriali (e oggi purtroppo non solo quelli), di qualunque colore politico o religioso essi siano.

Nella nostra Italietta la faccenda andò come doveva andare: su 1238 docenti universitari si rifiutarono solo in dodici, e quei dodici persero il posto. Gli altri, splendido esempio di dignità e, almeno per i filologi, di ottima conoscenza del latino e degli episodi più fulgidi e onorevoli della storia romana, rimasero tranquillamente al loro posto, tacitandosi la coscienza con le solite becere scuse di tutti i vili: ho famiglia, tanto anche se non giuro giurano gli altri, posso giurare e continuare a fare il mio lavoro, eccetera eccetera… Tra i dodici che rifiutarono ci fu Mario Carrara, uno dei massimi esperti di medicina legale dell'epoca e titolare a Torino della cattedra che era stata di Cesare Lombroso, della quale aveva sposato la figlia. Carrara rifiutò il giuramento sia perché la sua esperienza nelle carceri gli aveva dato modo di conoscere molti antifascisti, sia perché l'esilio del cognato Guglielmo Ferrero aveva fatto diventare la sua famiglia un punto di ritrovo degli antifascisti, sia anche perché giudicava che tale giuramento lo avrebbe obbligato a contrarre impegni di natura politica «… del tutto estranei alla materia del mio insegnamento…», come risulta dalla lettera di rifiuto del giuramento, indirizzata al rettore dell'università di Torino.

Su questa figura di intellettuale Claudio Fava ha costruito una pièce teatrale, dal titolo appunto Il giuramento, andata in scena, per la regia di Ninni Bruschetta, le musiche di Cettina Donato, le scene e i costumi di Riccardo Cappello, al Teatro Stabile di Catania il 5 dicembre, con repliche sino al 17. Un lavoro breve ma abbastanza intenso che ricostruisce con una certa fedeltà il clima delle settimane precedenti il giuramento in questione, fornendo di Carrara un ritratto più unilaterale di quello storico dove, se vengono messi abbastanza a fuoco gli aspetti per così dire estetici del suo rifiuto, rimane però in ombra quella coscienza antifascista che doveva senz'altro avere, quantomeno per le vicende che avevano coinvolto, come sopra accennato, la sua famiglia.

Nel lavoro di Fava, il rifiuto di Carrara si pone innanzitutto come un diniego ammiccante al disimpegno dello scienziato, quel disimpegno per intenderci che può creare scienziati che collaborano agli arsenali di guerra o personaggi che preferiscono scomparire pur di stare in pace come Ettore Maiorana: il problema però è che tale linea di pensiero non viene indagata sino in fondo, né comparata dialetticamente con un'altra affermazione di Carrara, che sempre nella lettera di rifiuto rivendica «quella libertà di indirizzo che è necessaria ad ogni attività del pensiero». La figura di scienziato che emerge dal lavoro di Fava rimane solo abbozzata, pur essendo pressoché continuamente presente sul palcoscenico, così come abbozzata rimane quella del collega socialista, al quale lo stesso partito ha consigliato di giurare, per l'opportunità politica di rimanere in cattedra e fare comunque il proprio lavoro. Eppure qui si annidava un ottimo spunto di riflessione, che avrebbe slargato il lavoro dal transeunte storico all'universalità dell'esistenza umana: perché il socialista giura e lo scienziato disimpegnato no? Meglio ancora: dove sta la differenza tra opportunità e acquiescenza? O ancora: qual è la vera differenza tra Galilei e Giordano Bruno? Perché uno accetta di abiurare e l'altro si fa bruciare?

C'è un momento in cui questo tema sembra far capolino nel lavoro di Fava, ma è solo un momento, e rimane abbozzato come i precedenti temi di cui si parlava prima: in buona sostanza, tutta la pièce rimane saldamente, e troppo, ancorata al transeunte storico, al particolare del giuramento, a immagini dell'Italia del ventennio, al cronachistico insomma, pur se è pregevole ricordare fatti che ancor oggi dovrebbero essere di monito, ma poi da questi fatti non riesce a trarre, e a far trarre agli spettatori, la lezione fondamentale: quel che è successo può ancora tornare a succedere, non è un fatto confinato al fascismo o all'Italia del ventennio o allo stalinismo o a qualunque altro regime, rosso o nero che sia, può accadere anche in democrazia, la democrazia può sospendersi o farsi sospendere… insomma la tentazione di controllare le menti di tutta una popolazione è sempre in agguato.

Il giuramento narra una storia emblematica, ma non riesce a tramutarla in un monito e così, e qui sta forse la sua debolezza ideologica, alla fine rassicura e non inquieta, lascia l'impressione che si tratti di una cosa che è successa, ma è stato tanto tempo fa, mentre al contrario, e il futuro solo dirà quanto è possibile, potrebbe benissimo accadere ancora… se già non ci siamo dentro senza accorgercene.

Pur con queste riserve, di natura più drammaturgica e filosofica che strettamente teatrale, va comunque detto che la pièce, nell'intento storico e civile a essa sotteso, è stata ben resa dalla regia asciutta ed essenziale, ma matura delle suggestioni del teatro brechtiano, di Ninni Bruschetta e dalla recitazione di David Coco, nel ruolo di Carrara, che ha tratteggiato la figura del medico torinese con notevole fedeltà al dettato dell'autore, rendendo in maniera abbastanza efficace la figura dello scienziato immerso totalmente nel lavoro, con le piccole abitudini e manie che gli permettono di mantenere entro binari ordinati la propria vita. Di buon livello tutta la compagnia, da Stefania Ugomari Di Blas, l'assistente di Carraro, al collega socialista impersonato da Antonio Alveario, dal preside di Simone Luglio ai giovani studenti affidati a Pietro Casano, Federico Fiorenza, Luca Iacono e Alessandro Romano, per finire con l'ufficiale di Liborio Natali.

Applausi convinti dal non numerosissimo pubblico della prima.

Giuliana Cutore

6/12/2017

Le foto del servizio sono di Antonio Parrinello.