Il piacere del teatro
ritorna finalmente allo Stabile di Catania
Conclusasi la disastrosa gestione degli anni precedenti, che aveva visto precipitare lo Stabile di Catania ai minimi storici, con un crollo verticale degli abbonamenti, spettacoli cancellati e cartelloni invasi da riduzioni di romanzi e da rimaneggiamenti a dir poco opinabili dei classici del teatro mondiale, e dunque con un necessario e definitivo approdo all'attuale commissariamento per tentare di salvare il salvabile, sembra che finalmente la luce torni a brillare sulle vicende del nostro Teatro. In primis perché, dopo molti anni, abbiamo avuto modo di assistere ad una inaugurazione della stagione 2016-2017 più che dignitosa, in linea con la tradizione teatrale, con una regia di tutto rispetto, fedele al testo e in grado di guidare gli attori, permettendo loro di esprimere il meglio delle loro possibilità. Il piacere dell'onestà, di Luigi Pirandello, andato in scena il 22 novembre, con repliche fino al 4 dicembre, è senza dubbio un testo complesso, per il continuo gioco di specchi all'interno del quale si muovono i personaggi, maschere dalle quali il volto reale affiora sporadicamente qua e là, per quel che permettono le forme imposte sia dalle convenzioni borghesi, sia da quei vincoli che, come spiegava il grande agrigentino, spezzettano la personalità in mille sfaccettature esprimenti ciascuna un singolo ruolo sociale e psicologico dell'individuo nel suo interagire con gli altri. I personaggi pirandelliani, in questo dramma come altrove, sono quasi sempre marionette sociali, prigioniere del loro ruolo, e tutta la dinamica della trama sta nel loro entrare e uscire da un gabbia invisibile, tirando i fili ora di qua ora di là, permettendo solo a sprazzi alla reale personalità, ammesso che esista, di venir fuori, per mostrare, come in una Lichtung heideggeriana, per pochi istanti, la vita nuda, la vita al di là delle forme e delle astrazioni che, date determinate premesse, non possono non irreggimentare l'uomo sino a precludergli ogni sprazzo di autenticità.
Naturalmente, riuscire a rendere patente questa dinamica richiede al regista e agli attori un grande sforzo di comprensione, e una particolare attenzione alle lunghe e particolareggiate didascalie che Pirandello utilizzava per i suoi drammi; sì, perché proprio nelle didascalie sta la chiave che permette, se rispettate, di rendere comprensibile il testo. In caso contrario, il risultato non può che essere fuorviante, incomprensibile e cervellotico, mutilando il testo pirandelliano della sua potente carica eversiva che per fortuna il fascismo non comprese e quindi non censurò.
Antonio Calenda, che ha curato la regia dello spettacolo, è riuscito ad imprimere al lavoro quella patina espressionistica che permette ai personaggi di venir fuori in tutta la loro complessità: su una scena minimale, curata come i bei costumi, perfettamente in linea con l'epoca del dramma, i movimenti degli attori si stagliavano ora convulsi, ora di una fissità lignea, lasciando emergere di contro l'assoluta naturalità del protagonista Baldovino, e contemporaneamente la netta evoluzione (indicata passo passo dallo stesso Pirandello) della giovane Agata Renni, da bambola in balia del suo rapporto colpevole col marchese Fabio Colli, le cui conseguenze necessitano di un matrimonio di sola facciata, alla donna pienamente cosciente dell'assoluta prevalenza in lei del ruolo di madre, ruolo che le parole di Baldovino le hanno permesso di comprendere in tutta la sua gravità. Il variare delle luci, dagli improvvisi, gelidi sbalzi, accompagnati dalle musiche di Germano Mazzocchetti, seguitava questa esemplare linea interpretativa, riuscendo a focalizzare tutta l'attenzione dello spettatore sui personaggi, e sul personaggio pirandelliano in particolare, Baldovino.
Tutta la compagnia si è mossa su questa linea, fornendo innanzitutto un raro, almeno a giudicare dalle ultime produzioni dello Stabile, esempio di affiatamento e coesione, e in tal senso lodevole scelta è stata quella di prestare molta attenzione ai comprimari, evitando così squilibri di interpretazione che avrebbero nuociuto alla resa complessiva: ottime le prove sia di Santo Pennisi, un parroco untuoso e condiscendente quanto necessario, e di Francesco Benedetti, nel ruolo di Maurizio Setti, incaricato dal marchese suo cugino di scovare un uomo disposto ad accollarsi il matrimonio con Agata e la successiva paternità.
Valentina Capone, nel ruolo della madre di Agata, Maddalena, ha delineato con sufficiente precisione il personaggio, anche se il suo tono un po' monocorde e una dizione alquanto affrettata hanno costituito il punto debole dalla sua interpretazione, che avrebbe, almeno nel primo atto, necessitato di pause più accurate, di una maggiore tavolozza timbrica ma soprattutto di evitare certi atteggiamenti quasi seduttivi nei dialoghi con Maurizio Setti.
Fulvio D'Angelo, il marchese Fabio Colli, ha offerto una recitazione stentorea, ben curata nella dizione, molto attinente al nobiluomo in grave dissidio tra il decoro che il suo ruolo richiede e la necessità di servirsi di un uomo dal passato non proprio cristallino per mascherare le proprie colpe.
Debora Bernardi, Agata Pennisi, ha confermato ancora una volta le sue notevoli dotti attoriali, dando prova di grande sicurezza scenica, di egregia dizione, ma soprattutto di un sapiente e raffinato uso della voce, cosa che, specie nell'ultima parte, che prevede un lungo e tormentoso dialogo con Baldovino, le ha permesso di conferire il massimo di efficacia alle battute più importanti e significative, che la sicurezza del gesto scenico e la ricca tavolozza timbrica hanno fatto emergere in tutta la loro tragicità.
Infine Pippo Pattavina, Baldovino, ha offerto una prova attoriale di altissimo livello, che ha permesso a chi scrive di poterne finalmente apprezzare le doti drammatiche, spesso se non sempre oscurate da una scelta di comicità vernacolare dalla quale, se guadagna certamente in gradimento da parte del pubblico, perde altrettanto certamente in termini di qualità della recitazione e di quel garbo e finezza di tratto che indubbiamente possiede, qualità oscurate e quasi annichilite da scelte talvolta grossolane. La sua ottima dizione, il tratto dimesso, di un realismo assoluto ma privo finalmente degli strascichi naturalistici, l'uso sapiente delle pause, il gesto curato nei minimi particolari, sin nel torcersi delle mani nei momenti più disperati, hanno sbalzato in tutta la sua contradditoria complessità l'uomo sospeso tra realtà e forma, tra cuore e intelletto, creando istanti di magia scenica che nascevano dall'assoluto controllo di sé, da una recitazione senza un attimo di cedimento, che ha rivelato un attore che, almeno per chi scrive, è sprecato per i ruoli comici che spesso ne hanno svilito e oscurato le vere doti.
Giuliana Cutore
23/11/2016
Le foto del servizio sono di Antonio Parrinello.
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