RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il Quinto per il quinto. E poi la Quarta

Il quinto appuntamento della stagione Rai impagina un programma di grande pregnanza con due capisaldi della letteratura concertistica e sinfonica. Giovedì 21 novembre 2024, con replica venerdì 22, Giuseppe Mengoli dirige l'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN) lungo le pagine del Concerto per pianoforte e orchestra nº5 in mi bemolle maggiore Op.73 di Ludwig van Beethoven e della Quarta Sinfonia di Gustav Mahler.

Un Quinto così non lo si sentiva da tempo. E non parlo della rarità del pezzo. All'auditorium Arturo Toscanini di Torino, infatti, dove l'esecuzione ha avuto luogo, i fedelissimi della Rai lo avevano ancora fresco nelle orecchie, essendo stato eseguito l'ultima volta poco più di un anno fa (09/03/2023, Costantinos Cardys direttore, Francesco Piemontesi al pianoforte). Parlo della qualità di esecuzione. A interpretarlo è stato Bruce Liu. Il nome non tragga in inganno, e soprattutto informi dell'internazionalità che ha respirato fin da bambino. Come si legge nella sua biografia, è «nato a Parigi da genitori cinesi e cresciuto a Montréal». La sua consacrazione è avvenuta quando ha vinto il primo premio al Diciottesimo Concorso Chopin di Varsavia nel 2021. E, sarà pure suggestione o bias nato dall'aver letto questo dato, ma la raffinatezza infusa nel Quinto di Beethoven è come se fosse stata filtrata dallo spirito di Chopin. Si prenda ad esempio la grande cadenza che apre l'Allegro : si apprezza fin dall'esordio un'eleganza di tocco che non sfigurerebbe in esecuzioni chopiniane, un jeu perlé tanto caro alle volatine dei Notturni (e non solo) del grande Polacco, volatine che nel primo movimento dell'”Imperatore” abbondano, assieme a passaggi di grande delicatezza nella regione sovracuta (elaborazione del secondo tema), segnati pianissimo e piano leggiermente [sic].

E va da sé che il massimo coinvolgimento emotivo del Concerto venga raggiunto, dato l'interprete, lungo l'eterea romanza centrale, d'incomparabile poesia, che prosegue quanto già sperimentato da Beethoven nel Terzo, ma che nel Quinto viene portato ai vertici. Con Liu, appoggiato su un'orchestra discretissima eppure estremamente attenta, l'Adagio un poco mosso guarda già avanti di almeno vent'anni, alle pagine più sognanti del pieno Romanticismo. Parimenti, raggiunge vertici espressivi notevolissimi nella coda del Rondò, quando, poco prima del piroettante slancio finale, il pianoforte dialoga a tu per tu col timpano solo in pianissimo, in un passaggio di grande originalità, il cui ritmo di 6/8, prima di accendere la fantasia wagneriana del lavoro ripetitivo nella fucina del Nibelheim, accenderà quella dello stesso Beethoven che un anno dopo l'”Imperatore” metterà in cantiere la Settima Sinfonia. Questo raccordo viene rastremato e rallentato ai limiti, stirando il tempo in un ritenuto che ha dato quasi l'idea che il Concerto dovesse spegnersi nel silenzio, come se pianista e compositore avessero esaurito idee ed energia: l'effetto di galvanizzazione delle ultime battute si è così arricchito della sorpresa alle orecchie di chi era al primo ascolto.

Si badi: Liu esce vincente anche dai passaggi più muscolosi del Concerto, rendendoli indubbiamente energici ed incalzanti: ma l'impronta “chopiniana” prevale, e a dirla tutta non dispiace: all'epoca dell'”Imperatore” (fine 1809-1810), Beethoven usciva dal titanismo dei suoi anni ruggenti, gli anni dell'”Eroica” e della Quinta, per orientare le sue creazioni verso quella che sarebbe stata definita la sua “terza maniera”, più attenta agli equilibri, più meditata, più cesellata. Una tale estetica viene quindi così esaltata da un'esecuzione che sa trarre da colori e chiaroscuri il massimo del suo valore.

In perfetta coerenza con quanto detto finora, il fuori programma non poteva che essere chopiniano: quella Fantaisie Impromptu in do diesis minore del 1835, che Chopin non pubblicherà mai e che sarà data alle stampe postuma da Fontana come Op.66.

Si è accennato solo di passaggio all'attenzione dell'orchestra nell'accompagnare Liu. Con la seconda parte del concerto, le qualità della direzione di Mengoli, al suo debutto con l'OSN, si fanno patenti. Della sua capacità di scavo nel tessuto strumentale si erano già avute avvisaglie in alcuni brevi passaggi durante l'”Imperatore”: un dialogo pianoforte-clarinetto messo bene in luce e certe frasi affidate a corni e clarinetti nel primo movimento, ad esempio, momenti di solito negletti e qui invece ben sbalzati. Con la Quarta di Mahler tale capacità viene attuata si può dire quasi misura per misura. La Quarta è la sinfonia più breve di Mahler, e quella dall'organico più piccolo (“piccolo” per gli standard mahleriani, s'intende): non per questo è meno “sentita” dal suo autore, meno curata. Anzi, con l'alleggerimento del tessuto strumentale l'attenzione ai dettagli è anche maggiormente percepibile, beninteso se sul podio sale un direttore che sappia il fatto suo. E Mengoli, il fatto suo lo sa: partitura alla mano, è innegabile la sua assoluta, e ripeto assoluta aderenza alle indicazioni mahleriane: un fortissimo contro un piano era esattamente un fortissimo contro un piano: in tal modo sono stati rilevati passaggi strumentali, anche di singoli strumenti, che in esecuzioni più dozzinali restano sepolti come tesori sommersi.

Anche qui, un piccolo bias ha forse inficiato il giudizio sul suo operato, ma non più di tanto: il primo premio al Settimo Concorso Mahler con l'Orchestra Sinfonica di Bamberga nel 2023, peraltro vinto portando un'opera infinitamente più complessa come la Settima. I primi due movimenti si avvalgono, ripeto, di una lettura attentissima, analitica, oserei dire chirurgica nel rendere con trasparenza l'orchestrazione mahleriana; e se difetto si deve trovare, è questo analizzare al microscopio la minima sfumatura che ha fatto talvolta perdere un po' di vista la visione d'insieme. Visione d'insieme che viene riacquistata nel lunghissimo Ruhevoll, il cuore della sinfonia, sempre mantenendo un occhio di riguardo per i dettagli ma sfumati in modo da garantire un'unità di fondo a un movimento che per sua natura rischia di essere dispersivo. Quanto a resa espressiva, la morbidezza degli archi dell'OSN e la precisione degli attacchi e dei soli dei fiati sono a garanzia di un'esecuzione di pregio. Un plauso al primo violino Alessandro Milani, che nei soli del secondo movimento alterna il Gobetti del 1711 a un secondo strumento, per dare l'idea di “scordato” voluta da Mahler.

Debitore quanto a linguaggio e scrittura dell'Adagio conclusivo della Terza Sinfonia, il Ruhevoll anticipa verso il fondo l'incipit del Finale, l'ultimo Lied tratto dal Wunderhorn a comparire nell'universo sinfonico mahleriano. Das himmlische Leben è qui interpretato dal soprano Leonor Bonilla, purtroppo costantemente coperta dall'orchestra. Ed è un peccato, perché nei punti in cui riusciva ad emergere si è potuta constatare una voce bella, morbida e flautata. Un peccato anche per la direzione di Mengoli, qui non in grado di bilanciare voce e orchestra, a vantaggio di quest'ultima. Apprezzabili gli interludi con sonagli che separano le strofe, una volta tanto non esageratamente esagitati ma pervasi di una sottile ansia che avrebbe fatto il paio con quella del ben più cupo Lied fratello, Das irdische Leben. Si sarebbero volute inoltre un po' più di sfumature per la conclusione, qui un po' frettolosa non tanto ad agogica, quanto a spirito. Chi ha memoria dell'ultima Quarta in questo auditorium, nell'ottobre del 2020 in pieno Covid, sa che quella conclusione, addormentandosi sul Mi grave dei contrabbassi, nella nostalgia per il paradiso con gli angeli fornai e Santa Marta cuoca, può lasciare molto più amaro in bocca.

Christian Speranza

28/11/2024

Le foto del servizio sono di Doc Servizi-Sergio Bertani/OSNRai.