Cento di questi giorni!
Il 27 settembre 1919 la Oslo Philarmonic Orchestra tenne il suo primo concerto pubblico alla Logan Hall di Oslo. Sotto la guida di Georg Schnéevoigt eseguì il Concerto per pianoforte e orchestra in la minore Op.16 di Edvard Grieg e la Sinfonia n°1 in re minore Op.21 di Christian Sinding. Il podio di quell'orchestra attirò personalità del calibro di Igor Stravinskij e Maurice Ravel. E, quando nel 2000 Mariss Janson, che ne aveva assunto la direzione nel 1979, la condusse all'Auditorium Giovanni Agnelli di Torino, quella fu la prima e unica data in cui toccò il suolo del capoluogo piemontese. «Per varie ragioni le nostre strade non si sono più incrociate» spiega Francesca Gentile Camerana, direttrice artistica di Lingotto Musica.
A quella data ormai storica si deve ora aggiungere quella di domenica 20/10/2019. Nell'ambito della tournée organizzata per il suo centesimo compleanno, la Oslo Philarmonic Orchestra torna a Torino per inaugurare la stagione 2019/2020 dei Concerti del Lingotto con un programma che in parte ricalca quello del debutto, incastonando, al centro della serata, il già citato Concerto di Edvard Grieg. A precederlo, lo spumeggiante Don Juan Op.20 di Richard Strauss. A seguirlo, la Sinfonia n°10 in mi minore Op.93 di Dmitrij Dmitrevic Šostakovic.
Richard Strauss lavorò al suo primo poema sinfonico, il Don Juan, fra il 1887 e il 1888. A differenza di altre composizioni di questo tipo, qui non viene raccontata nessuna storia in modo didascalico. Al contrario, vi è un susseguirsi di idee musicali, più o meno riprese e rielaborate, tutte inneggianti al vitalismo sfrenato di questo personaggio-icona, idee che godono di una scrittura sovente a piena orchestra, intervallate a sezioni più cameristiche; finché il tutto si ferma di colpo e la conclusione appare improvvisamente voltata in minore: Don Giovanni viene ucciso dal figlio di una delle sue conquiste. Questa la sua fine, almeno nell'incompiuto Don Juan di Nikolaus Lenau, poeta tedesco romantico e fonte letteraria di Strauss.
La lettura che ne dà Vasilij Petrenko, attuale direttore principale della Oslo Philarmonic Orchestra, è entusiasta, traboccante di suono, una galoppata energica in sella ai temi, che non manca di contagiare pubblico e critica fin dalle prime battute. E immediatamente si ha un'idea di quale straordinario livello tecnico offra questa orchestra: gli amalgami sonori, gli impasti strumentali sono incredibilmente fusi tra loro, in una compattezza e in una solidità impeccabili: impressione che viene confermata dall'ascolto del prosieguo del concerto, e le qualità da evidenziare non si fermano certo qui.
Da Strauss si passa a Grieg e al suo Concerto, senza dubbio la pagina più famosa in ambito strumentale del compositore norvegese, al pari del Peer Gynt in ambito teatrale. L'Op.16 risale al 1868, ed è nota per essere stata composta sotto l'evidente influsso del Concerto per pianoforte e orchestra in la minore Op.54 Schumann. L'apertura è quasi parallela: scoppio d'orchestra iniziale (preparato da un rullo di timpani nel caso di Grieg); cadenza discendente del solista; orchestra che espone i suoi temi. Ma le analogie finiscono qui: perché lo stile tende ad avvicinarsi, nelle efflorescenze infuocate di alcuni passaggi, al pianismo lisztiano, più che al languido stile schumanniano. D'altro canto, è facile risalire alle radici di questa doppia ispirazione, sapendo che Grieg ebbe come insegnante dapprima Ernest Ferdinand Wenzel, amico di Schumann, e poi Franz Liszt in persona.
Lo slancio interpretativo immesso da Petrenko nel Don Juan si placa per cedere il passo ad una lettura più composta, forse più azzeccata ma meno galvanizzante, del Concerto di Grieg. Leif Ove Andsnes, pianista norvegese ascoltato alcuni anni or sono proprio all'Auditorium Agnelli in un programma beethoveniano, sfodera una tecnica sopraffina: i trilli e le frequenti volatine in velocità sono eseguiti in modo preciso, pulito, con un notevole controllo della forma e della dinamica. Apprezzato anche il jeu perlé nell'Adagio, benché alcune durezze timbriche tendano a stridere con l'atmosfera generalmente serena del brano. La sintesi delle sue capacità arriva nell'Allegro moderato molto e marcato finale, dove la grande drammaticità e il virtuosismo lisztiano si alternano ad oasi intimiste. Tuttavia, la grande abilità e soprattutto il grande controllo della materia sonora esibito da Andsnen ha lo spiacevole svantaggio di ammantare tutta l'esecuzione di un che di freddo, di distaccato. Tecnicamente impeccabile, si ribadisce, ma freddo.
Petrenko, dal canto suo, potendo disporre di un'orchestra di una precisione chirurgica, trattiene l'entusiasmo, preferendo cesellare i particolari della strumentazione, piuttosto che lasciar correre il brano, come ha fatto col Don Juan, lungo le piste della melodia più aperta.
In risposta agli applausi, Andsnes ringrazia con un omaggio a tema: la Marcia norvegese “Gangar”, uno dei Pezzi lirici di Grieg (libro V, Op.54, n°2).
La Oslo Philarmonic Orchestra ha modo infine di sfoggiare tutta la sua bravura nella monumentale Decima Sinfonia di Šostakovic. Con la Decima, scritta nel 1953 appena quattro mesi dopo la morte di Stalin, Šostakovic dichiara tutto il pessimismo trattenuto negli anni precedenti, e traccia la strada per altre sue icone di tetraggine come la Dodicesima, la Tredicesima e la Quattordicesima Sinfonia.
Petrenko trova il taglio interpretativo più corretto, facendo emergere, del Moderato introduttivo, tutta la desolazione che lo permea: una landa di ricordi senza luce da cui emerge per un momento lo spettro della guerra, evocato dalle percussioni a ritmo di marcia (irrinunciabile nelle Sinfonie del nostro); poi pian piano l'emozione si placa, e si giunge al clima raggelato della conclusione, con quell'ottavino «che pigola sempre più piano», mentre sotto di lui gli archi troncano il discorso con un pizzicato sommesso. Non serve altro, a questa partitura, che farla suonare da sola, tanto è espressiva. Certo, abbisogna di un polso fermo per dominare la massa strumentale che scatena quei conflitti nevrotici di cui Šostakovic era maestro. Si passa poi a un Allegro sostenutissimo, staccato a tempo molto veloce, dove gli archi diventano selvaggi, aggressivi. Complice la melodia e la tenuta di Petrenko, questo breve movimento diventa ansiogeno, psicopatico, animato da un'energia demoniaca, in grado di evocare incubi. A questa visione allucinata segue un Allegretto che, quanto a dinamica ricorda la grazia settecentesca dei Minuetti, e stempera solo in apparenza l'angoscia generale della sinfonia. Petrenko lo rende strisciante, malfido, e sottolinea con dovuta attenzione il motto re-mi bemolle-do-si, in notazione inglese DSCH, con cui Šostakovic di fatto “firma” la Decima mettendo in scena il conflitto tra lui e Stalin. Un motto che, variamente trasposto, attraverserà anche tutto il finale, Andante-Allegro, che conclude, sì, in maggiore (in parallelo con la Quinta, per soddisfare i desiderata del Partito), ma non lascia certo l'idea di una vittoria su Stalin.
Perfetta l'esecuzione da parte di musicisti abituati a rifinire con cura ogni particolare. Non si finirebbe più di elogiarla, passaggio per passaggio. Plauso al primo corno, in grado di rimettere gli altri ottoni in quadro nonostante le seppur minime imprecisioni. Minimalista e puntilistico il gioco di fiati al termine dell'Allegretto, che sfilacciano il discorso musicale fino alla fine. Inquietanti e sinistri i pianissimi di tam-tam dell'Andante, macerato e meditativo...
Al termine di un capolavoro così struggente, la Oslo Philarmonic Orchestra e Petrenko si congedano con due fuori programma di spumeggiante vigore: la Danza norvegese n°2 in la maggiore Op.35 dell'amato Grieg e il Gopak dalla Suite n°3 che Aram Khachaturjan ricavò dal suo balletto Gayaneh.
Christian Speranza
4/11/2019
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