Sguardi ultraterreni
Santa Cecilia apre con Bruckner e Mahler
“Quando Dio mi chiamerà un giorno e mi chiederà: che cosa hai fatto coi talenti che ti ho dato? ebbene, allora io alzerò davanti a lui la partitura del mio Te Deum ed egli certo mi giudicherà benignamente”, sembra abbia affermato Anton Bruckner, esprimendo un afflato religioso non esente da un orgoglio creativo tipicamente romantico. Con quest'opera dal carattere monumentale e intimo al tempo stesso il maestro Antonio Pappano ha deciso di aprire questa stagione del tutto peculiare dell'Accademia di S. Cecilia, segnata pesantemente dalle restrizioni imposte dalla pandemia. Gli annunciati Meistersinger non hanno potuto trovare spazio causa l'enorme organico impegnato, sperando che il progetto possa essere recuperato in un prossimo futuro. Un'urgenza irrefrenabile spinge Bruckner alla composizione, fra le più felici della sua produzione in ambito sacro. La cifra di Pappano è, come di consueto, di stampo prettamente romantico. Il direttore sbalza le imponenti strutture sonore senza trascurare i non rari momenti di raccoglimento, veicolando un senso di calorosa umanità. Alla resa complessiva non nuoce il distanziamento fra i coristi, che anzi conferisce al suono una inedita spazialità. Buona la prova dei quattro solisti, scelti appunto fra i componenti di un coro ben istruito da Piero Monti.
Un esotismo del tutto personale esala da Das Lied von der Erde di Mahler, colmo di una pregnanza narrativa tipicamente occidentale. Lo struggimento, la disillusione, la morte si insinuano a poco a poco nelle pieghe di una scrittura cangiante e umbratile. L'allusione a una Cina fantastica e inattuale diviene pretesto per una meditazione sottilissima ed estrema. Anche il canto dell'ubriaco, che sembra risuonare in paesaggi deserti e stilizzati, è apparentato con la morte. L'ebrezza coincide con l'annientamento, con il dissolversi progressivo della coscienza. Giunti all'estremo margine della vita, atterriti da una incerta metafisica, si vorrebbe tornare indietro. Nell'ora del crepuscolo il ricordo si anima di movenze proustiane, struggenti nel loro sfumare in una indefinita lontananza. Forse solo nei Vier letzte Lieder di Richard Strauss la poetica del congedo ha raggiunto vette tanto elevate. Di queste istanze Pappano coglie solo in parte le molteplici implicazioni. L'esecuzione è tanto appassionata da coprire, ad esempio in Von der Schönheit, la voce solista. La resa orchestrale, di fatto rigogliosa, non sempre riesce a veicolare il senso di imminente caducità presente in queste pagine. Riguardo i cantanti, Clay Hilley ha voce robusta ma non particolarmente duttile alla miriade di inflessioni richieste da Mahler. Gerhild Romberger canta bene, anche se il timbro non è particolarmente denso ed evocativo. I suoi “Ewig” conclusivi sono comunque sufficientemente intensi da far correre un brivido nell'ascoltatore. La musica esita per lunghi istanti, resta in bilico sull'orlo del nulla come sul bordo di un precipizio, facendo presentire il respiro dell'eterno.
Riccardo Cenci
21/10/2020
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