RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Tra quattro pareti

La rarissima Incantatrice di Cajkovskij

in scena al San Carlo

Se Victor Hugo sosteneva che «ci sono molti modi di onorare Dio, ma il migliore è adorare la propria donna», Cajkovskij, in Carodejka, lancia un messaggio di altrettanto laica spiritualità: il piacere dei sensi – e le soggettive inclinazioni sessuali del compositore, che pesarono nella sua parabola umana e artistica, qui non c'entrano affatto – è un dono sublime e, dunque, uno dei sistemi migliori per avvicinarsi al Creatore. È questa la civilissima morale dell'immorale Nastas'ja detta Kuma, l'eponima maliarda o incantatrice dell'opera (a seconda di come se ne traduca il titolo russo), reginetta di una locanda-maison de plaisir suburbana con vista sul Volga. E d'incantamenti, in effetti, questo lavoro è pieno: per la sua protagonista di soggiogante sensualità; perché “incanto” e “canto” hanno la stessa radice, e il primo aspetto della malia di Kuma sta proprio nel suo cantare; e perché sarà un incantesimo (il filtro venefico di uno stregone) a porre fine alla sua vita.

Unica opera ciaikovskiana – almeno tra quelle completate dall'autore – rimasta ineseguita in Italia, L'incantatrice approda ora a Napoli, grazie a un vecchio spettacolo coprodotto tra il Marinskij di San Pietroburgo e Lisbona (l'allora direttore artistico del teatro lusitano è oggi alla guida del San Carlo). Nel corso degli anni la regia di David Pountney ha mantenuto intatto il suo appeal, e funziona bene la dialettica tra direttore e solisti pietroburghesi, da un lato, e le professionalità del Massimo napoletano dall'altro (orchestra e coro si destreggiano bene, ma soprattutto è ammirevole il corpo di ballo, chiamato dal regista a un impegno non solo coreutico, ma attoriale): a convincere solo fino a un certo punto, semmai, è proprio questo Cajkovskij maturo (1887) ma privo della freschezza dell' Onegin, e che non ha ancora conquistato lo spessore drammatico della Dama di picche ormai alle porte.

Un po' pletorica e diseguale, eppure con splendidi momenti capaci di pareggiare il conto (era grave non conoscere una pagina come il “decimino” a cappella con coro), L'incantatrice mette a fronte – in modo forse fin troppo manicheo – una donna di liberi costumi ma alta dirittura etica e dei feroci perbenisti. Sarebbe tuttavia incauto, per Kuma, scomodare confronti con le grandi seduttrici del melodramma, da Poppea ad Alcina , da Manon a Carmen (per quanto l'opera di Bizet ebbe un influsso non indifferente su Cajkovskij): piuttosto che brillare di luce propria, si tratta di un carattere che vive della sua antitesi con gli altri personaggi. Laddove il violento principe Kurljatev e la diabolica principessa Romanovna (un ruolo che sembra anticipare la Bouillon di Adriana Lecouvreur) risultano teatralmente più plastici e appaganti.

Stando così le cose, se la regia di Pountney ha un limite è di credere fin troppo alla drammaturgia del libretto di Ippolit Špažinskij. Confidando nella forza evocativa di un testo che trova invece proprio in un certo didascalismo le sue carte migliori, il regista rinuncia alla dialettica interni/esterni per racchiudere l'azione tra quattro pareti: una scatola scenica che funge ora da palazzo principesco ora da maison della protagonista – trasformata da locanda di malaffare a bordello di lusso – ed efficacemente sottolinea la natura cameristico-borghese del dramma. La Russia contadina del quindicesimo secolo resta evocata da pochi segni, mentre l'azione si proietta in un Ottocento cittadino dove per il sentimento della natura c'è poco spazio e la presenza del Volga non si avverte (ma nell'Incantatrice il Volga ha lo stesso peso della Senna nel Tabarro). Tuttavia, proprio tale decontestualizzazione consente a Pountney di arpeggiare su temi (sesso, religione, madri-matriarche, mariti-padroni…) che in questo spettacolo assurgono a una forza archetipica estranea al libretto; e quel “gruppo di famiglia in un interno” su cui – prima che il canto inizi – si alza il sipario diventa, sulla distanza, il prologo di un incubo: fino a un epilogo che qui sembra uscire dal Wozzeck (la bambina si balocca inconsapevole con il cavalluccio di legno attorno al cadavere del fratello) e forse con Cajkovskij c'entra poco, ma è un gran colpo di teatro.

Zaurbek Gugkaev si dimostra valido direttore-narratore: l'orchestra “racconta” bene, oltre a “cantare” spesso. Marija Bajankina è un'Incantatrice in leggero difetto di carisma, ancorché di pregevole linea di canto, mentre in Nikolaj Emcov sembra latitare – per rendere giustizia al suo modernissimo personaggio di tenore antieroico, succube degli stemmi di famiglia e degli artigli della mamma – non solo la personalità interpretativa, ma pure la tenuta vocale. Conclusione: il palcoscenico lo conquistano i cattivi.

Su tutti domina Jaroslav Petrjanik, baritono dall'emissione solidissima, capace di un declamato ora granitico ora duttile, che restituisce la virulenta alterigia di Kurljatev non meno del suo angosciato obnubilamento nel finale. Ma impressionano pure la forza espressiva unita a un canto sempre ben timbrato del mezzosoprano Liubov' Sokolova, principessa luciferina, e il camaleontismo attorial-canoro del basso Aleksej Tanovickij, che si fa carico tanto del sessuofobo diacono Mamyrov quanto dello stregone dispensatore di veleni, con risultati sempre pertinenti. E se è impossibile citare tutti i comprimari (quelli cui Cajkovskij concede significativi primi piani sono cinque o sei), una menzione speciale va almeno al Foka del baritono Denis Beganskij: zio della protagonista e ospite, o forse co-tenutario, della sua maison .

Paolo Patrizi

1/3/2017

Le foto del servizio sono di Luciano Romano.