Parigi
Cosa vuol dire Indes Galantes?
Impossibile vedere la grande opera-balletto di Rameau se non la si vede a Parigi e soprattutto in questo Teatro. L'allestimento anteriore (non menzionato assolutamente sul programma di sala) se non era particolarmente felice aveva colori vivaci e dal lato musicale aveva nientemeno che William Christie e i suoi musicisti e sul palcoscenico la grande Natalie Dessay.
Questa volta si può dire che l'aspetto musicale era molto accurato e perfettamente equilibrato, ma l'eccellente lavoro di Leonardo García Alarcón, la Cappella Mediterranea, il coro da camera di Namur e via dicendo, e il grande livello, molto equilibrato, di tutti i cantanti mancava di quel piccolo niente, di quella scintilla che quei nomi riuscivano a far scattare sebbene l'insieme adesso fosse più omogeneo e di conseguenza migliore. Almeno non ricordo di aver guardato l'orologio come mi è capitato un paio di volte e soprattutto nel prologo (e ci sono stati dei piccoli tagli).
Non ha senso scegliere la migliore dei tre soprani, ma per timbro, espressività e tecnica si può dire che Sabine Devielhe era appena superiore a Julie Fuchs, e che entrambe superavano leggermente Jodie Devos, cantante più del tipo di soubrette e con un colore e formato di questa classe di voce ma straordinaria musicista. Tra i signori sì c'era qualche differenza più notevole. Ad esempio, il bravo baritono Edwin Crossley-Mercer cantava ruoli più piccoli e meno compromessi, eppure così la sua bella voce sembrava quasi sempre piazzata troppo indietro benché la figura risultasse imponente. Matthias Vidal è un bravo tenore (piuttosto tenorino) e molto simpatico come attore, ma il registro acuto può e deve migliorare, perché l'emissione è a rischio. Stanislas de Barbeyrac invece ha un colore bellissimo di tenore e una presenza eccezionale, ma anch'egli tendenzialmente spinge quando sale all'acuto senza che ce ne sia alcun bisogno. Florian Sempey (baritono) incominciava troppo rigido nel Prologo, ma nell'ultimo cuadro (‘Les sauvages') eccelleva. Ma la voce più importante e senza problema alcuno di emissione era quella del baritono Alexandre Duhamel, che purtroppo sceglieva un approccio troppo rozzo anche dal punto di vista scenico che non sempre è consono alla musica.
Dove invece chiaramente si avverte una soluzione a dir poco problemática è nella messinscena, per la regia di Clément Cogitore e la coreografia di Bintou Dembélé con la sua compagnia, accolte dal pubblico con grandi manifestazione di vero tripudio, ma che al sottoscritto sono sembrate a dir poco non tropo adatte alla musica e al senso di quest'opera. Dei ballerini che sono soprattutto degli atleti fenomenali ma che hanno sempre una danza di forza se non di violenza che si ripete, delle tenebre quasi perenni con solo qualche contrasto di luce molto vivo, costumi che cancellano ogni differenza tra prologo e quadri per riportarli a una sorta di astrazione contemporanea per niente esotica. Eppure il titolo dell'opera è chiaro: si tratta delle ‘Indie' – in senso molto lato visto che ci sono anche turchi e persiani – viste dall'ottica galante che era poi quella francese del Settecento, qui piuttosto quotidiana o kitsch (penso ai numeri di ‘majorettes' o ai rimandi al quartiere a luci rosse di Amsterdam) che non so se pretendeva di attualizzare e magari modificare il messaggio di testo e musica, con un tentativo di stilizzare proprio in senso contrario e senza una minima ironia nel presentare personaggi che sono in realtà degli ‘archetipi' di epoca, qui però sempre uguali e che finiscono con avere il risultato contrario di falsificare il senso dell'opera-balletto senza farcela più vicina. E in fin dei conti perchè dovrebbe esserci vicina se è lontana? Non possiamo apprezzare niente se non è esattamente conforme al nostro mondo e ai nostri criteri, e più particolarmente quando il materiale che abbiamo fra le mani si rifiuta ostinatamente di venir messo dentro ciò che un tempo si chiamava letto di Procuste?
Jorge Binaghi
7/10/2019