Amo il teatro perché, come la vita, è imprevedibile,
fatto d'incontri a sorpresa
Se è vero – com'è vero – che il teatro è mistificazione, se è vero – com'è vero – che più il player è altro da sé più raggiunge l'ineffabile, se è vero – com'è vero – che Andrea Tidona è uno e centomila, è prodigiosamente vero ch'egli è esattamente come lo “senti” dentro e fuori dal “gioco”. E cioè creatura d'intensità, umanità, fibra etica con cui impasta la sua vita nell'arte da sempre.
E per forza che lo “zoccolo duro” dei set cinematografici – leggi: truccatori, parrucchieri, costumisti – dopo la prima settimana di riprese, sbottano: “Se ti dico una cosa, t'offendi? Tu non sembri un attore!”. Ecografato a dovere, è il migliore dei complimenti. E lui non si fa pregare a replicare: “Infatti io non sono un attore, sono un massaro modicano prestato alla recitazione”.
Però, che prestito. È stato il coinvolgente pittore comunista di “Cento passi”, Angelo Carati, il singolare pater familias di “La meglio gioventù” (orchestrava Marco Tullio Giordana), Carmine Fazio de “Il giovane Montalbano” di Tavarelli, il colonnello La Blasca de “Il 7 e l'8” di Ficarra e Picone e ancora Falcone (“Il capo dei capi” di Monteleone), Chinnici (“Paolo Borsellino”) il dottor Alfredi (“Braccialetti rossi”). Diversi, tutti, per colori e calori, ma tutti uguali per piglio professionale ed il carico di talento con cui Tidona è stato “davvero” ciascuno di loro.
Da domani sarà a teatro – sua prima casa da cui non prevede traslochi – in voce, volto ed anima di un padre scomodo d'una figlia ch'egli pretende di possedere come un gioiello e a cui “brucerà” nozze mai avvenute. Accade durante “La cena” di Giuseppe Manfridi, punta d'eccellenza del “teatro della persona” del regista Walter Manfrè, in scena al Katane Hotel per la stagione del Piccolo Teatro della Città.
“Alla figlia, fuggita da casa 5 anni prima, lo lega un rapporto morboso al limite del non detto – dice – È lucido, intelligenza viva, affabilità ed arroganza in parti uguali. E la sua “bambina” non sarà da meno”.
Nel nostro Paese un attore di cinema e tv deve farsi perdonare d'essere artista di teatro, è un “delitto italiano”, giusto per strizzare l'occhio a Marco Tullio Giordana. Lei come ha fatto?
“Amo il teatro perché, come la vita, è imprevedibile, fatto d'incontri a sorpresa. Giordana è uno che, finalmente, ama gli attori di teatro a differenza di registi che puntualmente commentavano: “Bella faccia, sì, ma…tanto teatro, eh?”, come fosse un peccato originale. Giordana invece, nell'attore di teatro coglie la capacità di interpretare e dunque di cambiare. Senza contare che nel cinema italiano i veri “attori” sono pochi, gli altri sono piuttosto personaggi meravigliosi. Giusto per non far nomi, Abatantuono, bravissimo ma uguale a se stesso e altrettanto può dirsi del caro, simpaticissimo amico Tony Sperandeo. I registi, molti dei quali sono ottimi operatori di macchina ma lavorano poco sugli attori, dinanzi a chi fa teatro spesso s'impauriscono: chissà che farà, questo? E che farà? Entrerà a fondo nel personaggio! E, per “I cento passi” in cui c'era tanta gente di teatro come il buon Pippo Montalbano, i critici cinematografici che a teatro non vanno, parlarono di “attori sconosciuti”. Chi è stato il suo faro, in teatro?
“Ne ho avuti due, uno dietro l'altro. Quando vado a teatro dove più che teatro vedo televisione dal vivo, dinanzi a giovani che pensano di farne la loro vita, mi rammarico, mi dico “Strehler non l'hanno visto”. Irripetibile, ineguagliabile. Vedevi Tino Carraro, in scena, e presuntuosamente pensavi che, con tanto studio forse si poteva raggiungerlo ma con Strehler ti passava la voglia di sentirti Gesù Bambino. Poi, per 4 anni, ho trovato in Glauco Mauri il vero maestro di bottega. Piero Sammataro voleva che lo chiamassimo “mastro” e questo è stato Glauco, per me: lo guardavi lavorare e “prendevi”. Una volta, Renato De Carmine, vedendomi in quinta a centellinarmi ogni istante di “Re Lear”, mi disse: “Che fai tu, qui, delinquente? Stai qui e rubi!”. Certo, questa è l'arte”. Come si fa scegliere la buona televisione?
“Con copioni degni oppure t'accontenti di ciò che passa il convento. Per me, per fortuna, c'è stato un periodo in cui potevo permettermi di dire: questo sì, questo no”. C'è stato?
“Oggi il mercato vacilla, non è più quello di 7,8 anni fa e più che film in due parti ci sono serie che è appropriato beccare dall'inizio. A parte il fatto che vorrebbero affamarti”.
Cioè?
“C'è questo malvezzo della mancanza di soldi per cui ti toccherebbe solo la metà di ciò che guadagnavi prima. Ma io non credo alla loro crisi. Intendiamoci, giro cortometraggi gratis e sono tuttaltro che venale ma produzioni che sfruttano alla grande da anni non me la danno a bere. Così come quei registi che vogliono convincerti a tutti i costi di un ruolo che non è granché: “Sai, fatto da te…”. Ma io ho una mia cartina al tornasole: se quando si racconta una storia non si può fare a meno di citare “quel” personaggio perché incide sulla vita del protagonista in modo determinante, il ruolo passa l'esame, anche se non ha tantissime pose. A nulla vale, invece, un personaggio con 10 scene che se ne resta immobile e che lui appaia o non appaia non cambia nulla. Ma sono di nuovo i registi a fare la differenza: se capisci che sarai abbandonato a te stesso, fai presto a (non) scegliere”.
A teatro, Lei è stato un Führer in crisi perché bocciato all'Accademia di Belle Arti: “Senza Hitler” di Edoardo Erba è una sorta di ucronia che precedette “Lui è tornato” di Timur Vermes. L'Italia sarebbe “altro” “senza” che cosa?
“Senza gli italiani. Hai voglia a dare addosso ai politici: gli italiani sono nati sudditi e forse moriranno sudditi, non sanno cosa voglia dire essere cittadini. È la prima disgrazia di questo paese. Gli italiani preferiscono godere di un privilegio perché, da furbi, pensano di farla franca e non sanno che quella roba torna loro indietro con interessi da pagare. Nossignore, loro preferiscono i privilegi ai diritti perché a fronte dei diritti, ci stanno i doveri”.
È un “sistema” in cui noi siciliani rischiamo d'essere primi della classe…
“Eccome. Quando m'invitano ad incontri sulla legalità, ai ragazzi dico che diventare cittadini è la vera rivoluzione culturale. Uomini con dignità, senso del dovere, lì sta il sovvertimento dei costumi. Perché Falcone e Borsellino sono morti? E' facile liquidarli con l'etichetta d'eroi, fa comodo a chi ti rifila il solito “Che faccio? Io tengo famiglia”. Ma non è così. Chi la mattina, in ufficio, legge il giornale invece di lavorare, è un delinquente più di Riina, piaccia o no. Dirò di più: Riina ci mette la faccia e rischia di farsi ammazzare mentre resta impunito chi prende i soldi dei cittadini senza far nulla. Che altro dire d'un paese che ha avuto gente come Mussolini che disse: “Per sedermi al tavolo della pace ho bisogno di 5000 morti”? Un popolo amante d'intrallazzi, che elemosina aiuti, “L'un popolo e l'altro sul collo vi sta”, per dirla con Manzoni. Ma l'Italia senza italiani, come si fa?”
E un “senza” in arte scenica?
“Senza televisione, forse. Tutto è importante, tutto ha diritto d'esistere purché resti nella sua essenza e non sconfini creando una melassa che confonde. Perché mai, per esempio, i giornalisti devono far teatro? E perché la critica, per una volta, non decide di massacrarli invece di alimentare equivoci?”.
C'è un personaggio che insegue, una storia che vorrebbe raccontare a modo suo?
“È un progetto ambizioso che mi frulla da tempo: fare le pulci a tutte e 37 le opere di Shakespeare e “nasconderle” in un'unica pièce”.
Il corrispettivo drammatico della Reduced Shakespeare Company che fece tutto Shakespeare in 97 minuti?
“Loro giocano sulla riconoscibilità, io farei esattamente il contrario, confonderei le carte per dimostrare quanto Shakespeare sia capace di comprometterci ancora oggi. Come prima e meglio di prima”.
Carmelita Celi
8/2/2018
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