Il risveglio della Bella Addormentata
Juraj Valcuha e Isabelle Faust.
L'OSN torna ad essere diretta dal suo direttore Juraj Valcuha nel diciottesimo appuntamento della stagione, il 27 e 28 marzo 2014. In apertura il Coriolano Op. 62 di Beethoven, ouverture del 1807 scritta per l'omonima tragedia di von Collin. Valcuha si dimostra pienamente padrone delle risorse di questa splendida orchestra, e con gesto direttoriale potremmo dire “beethoveniano”, a pugni levati, sospinge la tensione al massimo possibile: il tempo tenuto ci è parso inizialmente un po' troppo veloce, ma, data l'interpretazione romantica complessiva, questa scelta è sembrata giustificata, in forza dell'aggressività e dell'irruenza con cui stata condotta l'esecuzione. Cura particolare è stata data alle dinamiche, all'alternanza dei piano e dei forte improvvisi, che contribuiscono ancor più che i crescendo, almeno in questo brano, a trasmettere l'idea di cambi improvvisi di temperatura emotiva. Il Coriolano, già secondo gli standard dell'epoca, non richiede un organico smisurato: lo stesso Beethoven, per l'ultimo movimento della Quinta Sinfonia (che proprio nel 1807 stava per ricevere veste definitiva: la completerà l'anno successivo), chiederà il rinforzo di controfagotto e tre tromboni; ma non è questo il caso. Con l'impiego tutto sommato ordinario di legni, corni e trombe “a due”, timpani e archi (poco più di una cinquantina di strumentisti in tutto), il genio di Beethoven riesce, in otto-nove minuti, a coinvolgere quasi tutti gli stati emotivi (saltando a piè pari la gioia e la felicità, protagoniste proprio del finale della Quinta, lavoro sinfonico di cui il Coriolano sembra essere la “prova generale” del famosissimo primo movimento, tanto più che ne condivide la tonalità di do minore), passando dall'irruenza dell'introduzione, al nervosismo del primo tema, alla dolcezza del secondo, dolcezza che si trasforma in inquietudine quando dal modo maggiore volge al minore: un'intera gamma di emozioni condensate, fino a quei pizzicati che, alla fine, restano come sospesi su un abisso, carichi di mistero e di angoscia. E Valcuha riesce nell'intento di comunicarci questa sensazione: solo nell'istante di silenzio dopo l'ultimo pizzicato, infatti, ci siamo accorti che dovevamo (e potevamo) respirare. Di tutt'altro tenore emotivo è il Concerto per violino e orchestra in re minore op. postuma (WoO 23) di Robert Schumann. Scritto nel 1853, ma eseguito per la prima volta solo nel 1937, questo concerto appartiene all'ultima fase della produzione schumanniana, quando, accantonate le velleità di compositore-pianista-esecutore con le quali era balzato sulle scene del mondo musicale (a differenza di quanto Chopin farà per tutta la vita, contando che Schumann e Chopin condividono lo stesso anno di nascita, il 1810), si fa più forte in lui l'interesse per l'orchestra che fa spazio al solista, nella quale esso riesca ad integrarsi alla pari, senza per forza svettare con quei virtuosismi che facevano la felicità di esecutori e pubblico (allo stesso anno risale, per esempio, la Fantasia per violino e orchestra in do maggiore Op. 131, mentre di poco precedente, 1850, è lo splendido Concerto per violoncello e orchestra in la minore Op. 129, sorta di racconto accanto al fuoco di un vecchio saggio che snocciola con pacatezza i suoi ricordi); per questo è necessario un violinista che padroneggi non solo la tecnica, ma anche l'espressione: e, se nel 1993 ad interpretarlo era stato chiamato Uto Ughi, sotto la direzione di Janos Fürst (così leggiamo nel programma di sala), per questa occasione è stata chiamata la non meno valida Isabelle Faust, violinista tedesca per la prima volta ospite dell'OSN Rai, dal curriculum e dal violino invidiabile. Suona infatti lo Stradivari Bella Addormentata. Ci siamo fatti raccontare la sua storia da Alessandra Barabaschi, che proprio su 148 strumenti del liutaio cremonese ha recentemente pubblicato un importante compendio con riproduzioni fotografiche a colori in scala 1:1 (Antonio Stradivari, quattro volumi, 2010, Jost Thöne editore).
Questo violino, come la protagonista della fiaba di Perrault, è rimasto “addormentato” per più di cento anni. All'interno dello strumento si trova un'etichetta originale che riporta la dicitura: Antonius Stradivarius Cremonensis Faciebat Anno 1720, ma diversi esperti suppongono sia più verosimile far risalire la sua fabbricazione durante il “periodo d'oro” del liutaio cremonese, agli inizi del XVIII secolo (1704). Questo perché la Bella Addormentata è quasi un gemello del celebre Betts, databile proprio agli inizi del 1700. Per ragioni che finora non è stato possibile chiarire, lo strumento fu “dimenticato” per più di cento anni nell'attico di un castello di Bournemouth, nel Dorset (Inghilterra), finché, intorno alla fine del 1800, venne accidentalmente ritrovato dal proprietario del castello, il barone tedesco Max von Boeselager. All'alba della prima guerra mondiale, la famiglia Boeselager decise di mettere la Bella Addormentata al sicuro nel caveau di una banca: e per la seconda volta cadde in un sonno profondo. Nel settembre del 1995 lo strumento fu acquistato dalla L-Bank (Landeskreditbank) Baden-Württemberg di Karlsruhe e da allora ha “stregato” Isabelle Faust, diventandone l'inseparabile compagno.
Capelli corti mascolini e look casual, Isabelle Faust inizia l'esecuzione ad occhi chiusi. La sua concentrazione è percepibile; trasmette la sensazione di essere come investita dalla musica che esegue, facendosi portavoce, come le antiche sibille, di un messaggio la cui origine non sta in lei, ma è da ricercarsi più in alto. Ottima anche l'orchestra nel saper dare risalto al solista. Il Concerto per violino di Schumann è un pezzo a mezze tinte, dove anche i chiaroscuri orchestrali hanno la loro importanza. Notiamo un certo gusto narrativo, in Valcuha, che lo porta a far “respirare” l'orchestra, mentre snocciola, in stile Biedermeier, un'idea melodica dietro l'altra. Poi, arrivati alla cadenza, tutto diventa diafano, sovrannaturale; e ritroviamo lo stesso carattere nel Lento centrale, animato da un lirismo non ostentato, riflessivo, in grado di trasportare in mondi lontani, e che sfocia con naturalezza nel terzo movimento, grazie ad un delicatissimo sfumato. Anche qui, nel mondo espressivo del terzo movimento, la misura e l'equilibrio sembrano essere la cifra distintiva dell'esecuzione, che modera, smorza le dinamiche, come ripiegandosi su se stessa con uno sguardo intimistico e sereno. Lo Schumann dell'ultimo periodo, rivissuto attraverso la Faust e l'OSN di Valcuha, sembra andare oltre il suo tempo, ma anche oltre il tempo in generale. Sulle sue ultime composizioni si stende una patina crepuscolare, forse l'«addio al mondo», citando Modugno, di un compositore che, nella sua visionarietà, nella sua pazzia, ha saputo meglio di altri incarnare lo spirito davvero sopra le nuvole del Romanticismo. Oltre le nuvole, oltre il tempo, potremmo dire oltre la logica.
All'arrivo del bouquet rituale, intonato alle righe orizzontali arancioni della maglia della Faust, la violinista risponde con un encore di sopraffino nitore, la Sarabanda dalla Partita n.2 in re minore BWV 1004 di Johann Sebastian Bach (il suo CD di composizioni bachiane per violino solo ha vinto il Diapason d'oro dell'anno).
Chiude la serata il Concerto per orchestra di Witold Lutoslawski, del 1950/54 che si situa quindi a un decennio scarso dall'omonimo Concerto di Bartók e col quale condivide un ritorno, seppur solo formale, al concerto “alla barocca”. Rispetto alla composizione bartókiana, però, quella di Lutoslawski si fa portavoce di una drammaticità più smaccata. Valcuha sembra accentuare i tratti più stravinskijani di questa composizione, garantendo a tutta l'esecuzione uno smalto forse a tratti anche ridondante (l'abbondanza di mezzi orchestrali richiesti da Lutoslawski non ha bisogno di sottolineature dinamiche eccessive, semmai il lavoro è da concentrarsi sul rilievo dei dettagli, da far emergere dalla complessa pagina orchestrale). Quando rinuncia a forzare la mano agli orchestrali, appare al meglio: apprezziamo soprattutto il Capriccio notturno, dove accentua il carattere di motus perpetuus degli archi (lontana eco del Volo del Calabrone di Rimskij-Korsakov) e l'aspetto quasi allucinato delle figurazioni ai legni, alle percussioni (xilofono) e alle tastiere (pianoforte e celesta), un gioco di spiritelli che strizza l'occhio al mondo fantastico di Mendelssohn, ma come trasposto in un incubo, o in un dormiveglia tormentato. Sottolineiamo ancora l'attento e misurato gioco dei diversi tamburi nel secondo movimento, dove il l'Arioso del Capriccio notturno cede il passo alla conclusione in Vivace, l'inizio contenuto, misterioso, quasi sacrale della Passacaglia (altro riferimento alle forme antiche, ripreso in tempi moderni dal famoso esempio di Webern, 1908) e alla ridda finale di suoni, condotta sulla scia della catastrofe che conclude il Mandarino Miracoloso, ancora una volta di Bartók.
Christian Speranza
8/5/2014
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